Umanità Nova, numero 25 del 18 luglio 2004, Anno 84
Le notizie quotidiane che arrivano dall'Iraq disegnano oramai una situazione per molti versi simile a quella palestinese: un paese occupato da forze militari culturalmente e antropologicamente differenti dalla popolazione occupata, uno stillicidio di attentati, azioni di guerriglia più o meno organizzate e coordinate, il costituirsi di partiti e fazioni politiche che si candidano alla gestione del paese all'interno di un meccanismo di scontro e mediazione con gli occupanti, una gestione dell'ordine pubblico sempre più incentrata sull'umiliazione dei civili e sul terrore inculcato soprattutto ai più giovani tra loro. Le differenze notevoli riguardano il fatto che gli americani e i loro alleati non hanno alcuna intenzione di colonizzare l'Iraq ma semplicemente di controllarlo e, a tale scopo, vorrebbero avere a disposizione un credibile gruppo dirigente iracheno disposto a governare per loro la complessa società del paese asiatico e, quindi, a permettergli di ritirarsi all'interno delle famose 14 basi inavvicinabili costruite nel deserto e dentro le Green Zone del centro di Baghdad dove sono posizionate le sedi diplomatiche e quelle delle multinazionali.
La nomina del governo Allawi e l'anticipo di due giorni sull'operazione di maquillage denominata "ritorno della sovranità in Iraq" risponde a queste necessità. Per non sbagliarsi gli Stati Uniti hanno nominato Primo Ministro una loro vecchia conoscenza, un ingegnere appartenente a una delle famiglie che guidava l'Iraq prima del colpo progressista di Kassem che però, a differenza del suo predecessore nel ruolo di favorito della CIA e del Pentagono Chalabi, non risulta avere legami significativi con l'alleato rivale degli USA nella gestione della stabilizzazione dell'Iraq: l'Iran.
La gestione di questa operazione ha confermato ancora una volta
quale sia l'idea che a Washington hanno dell'ONU e quale sia il reale
margine di indipendenza della presunta organizzazione degli stati di
tutto il mondo; l'inviato del segretario generale dell'ONU, Laktiar
Brahimi, non ha nemmeno potuto esprimere il proprio parere sul nome del
primo capo di governo del dopo Saddam. La stessa messa in scena sulle
spiagge della Normandia all'inizio del mese di giugno che avrebbe
dovuto garantire un compromesso tra la femminea "Old Europe" e i
giovanattoni americani non ha mutato di una virgola il quadro
strutturato dall'inizio della crisi ad oggi: gli Stati Uniti e i loro
alleati inglesi restano i padroni del paese, mentre i volenterosi
prestatori d'opera italiani, europei dell'Est e nippo coreani possono
sperare in qualche briciola. Tutti gli altri sono esclusi dal ricco
festino e dalla ricolonizzazione della moderna Mesopotamia. In fondo lo
scontro iniziatosi nel corso dell'estate del 2002 mirava proprio a
questa soluzione: escludere gli altri paesi centrali dall'invasione e
dalla successiva ristrutturazione del Medio Oriente in modo da
continuare a controllare le loro economie tramite la leva delle risorse
energetiche. Solo gli sciocchi potevano pensare che in cambio di un
riconoscimento formale della situazione di fatto e di un finanziamento
più o meno consistente all'occupazione gli Stati Uniti avrebbero
rinunciato a "fare da soli". Dal punto di vista della politica
internazionale e, quindi, del rapporto tra le classi dominanti
internazionali, la solitudine americana è un punto di forza e
non di debolezza. La dipendenza delle economie dei paesi europei ed
asiatici dalle risorse petrolifere mondiali ha prodotto una situazione
di estrema facilità nel controllarle senza dover muovere
direttamente guerra ai loro paesi: il controllo delle principali fonti
energetiche determina già la loro irregimentazione in un ordine
piramidale che vede sopra tutti il capitale americano e al di sotto un
numero sempre più vasto di soggetti politici ed economici che ad
esso sono subordinati e da questo dipendono per la valorizzazione delle
proprie produzioni. Per le classi dominanti europee o giapponesi (o
domani per quella cinese) sarebbe un suicidio pensare di scontrarsi
seriamente con il paese da cui dipendono le loro importazioni di
materie prime energetiche e che garantisce loro l'assorbimento della
quantità minima necessaria di merci che garantisce la
valorizzazione della produzione capitalistica.
Il complesso politico, economico e militare americano è in crisi
sul piano dell'egemonia, non riuscendo più ad elaborare un
modello che trovi l'adesione delle classi dominanti internazionali e la
tranquilla sottomissione del proletariato industriale euroasiatico e
delle classi medie occidentali. Questo blocco interclassista
internazionale che bene o male ha garantito a Washington l'assoluto
predominio sull'economia mondo capitalistica dal 1945 a oggi, si
è definitivamente sfaldato e le classi dominanti americane hanno
deciso a partire dagli anni Novanta di accelerarne la decomposizione
con politiche sempre più aggressive sul piano economico e
sociale (il cosiddetto neoliberismo) e di sostenere questa politica con
l'insediamento militare nelle aree decisive per il futuro produttivo
del pianeta: Guerra del Golfo e successivo embargo, Somalia, Balcani,
Afganistan e Asia Centrale, nuovamente Iraq. La ragione di fondo
è costituita dalla riduzione della profittabilità
dell'economia mondiale che scatenando la competizione
intercapitalistica stava comunque portando alla rottura del blocco
egemonico a prevalenza finanziaria ed industriale americana. Per
evitare una prospettiva di questo genere gli strateghi di Washington si
sono "buttati sul militare" in forma preponderante, giocando le proprie
carte sul territorio dove non esistono stati od alleanze internazionali
in grado non dico di batterli, ma nemmeno di competere con loro.
Se sul terreno del confronto internazionale gli Stati Uniti risultano vincenti e con ottime prospettive di continuare ad esserlo, sul terreno della guerra vera e propria, combattuta contro un nemico difficile da isolare e fortemente motivato a battersi per un insieme di motivazioni politiche, economiche e religiose, gli Stati Uniti accusano difficoltà crescenti da molti mesi a questa parte. La strategia che gli USA mettono in campo contro la resistenza irachena è fondata su due principi: l'assorbimento politico e clientelare di qualsiasi settore di essa si presti alla collaborazione, e la spinta con tutti i mezzi nei confronti dei restanti settori all'adozione di comportamenti che non possono che nuocere alla loro causa. Esemplare in questo senso è stato il comportamento tenuto nei confronti del giovane ayatollah Moqtada-al-Sadr, prima provocato allo scopo di costringere il suo partito ad insorgere, poi sfidato all'interno delle città sante sciite e della baraccopoli di due milioni di abitanti alla periferia di Baghdad che porta il nome del padre allo scopo di costringerlo alla battaglia in campo aperto, infine riaccettato all'interno di quella specie di "arco costituzionale" che gli inviati di Bush stanno costruendo per gestire l'Iraq. Il risultato è stato la distruzione delle milizie armate del leader sciita che hanno perso circa mille uomini sui tremila armati dei quali disponeva, un torrente di fuoco inutile e mal coordinato che ha causato perdite di poco conto tra i marine americani e la rinuncia da parte sua a giocare un ruolo di rottura per rientrare nell'ordine democratico imposto da Washington. Una gestione più accorta della propria forza militare e politica sarebbe consistita nell'evitare di giocare con gli americani con le regole imposte dagli americani stessi, mentre questo è esattamente quello che è successo.
In sintesi gli USA lavorano strategicamente a preparare il terreno perché l'avversario giochi le proprie carte nel modo più idiota possibile e si faccia male praticamente da solo: anche l'episodio delle torture deve essere visto in questo quadro. La diffusione della notizia delle torture tra la popolazione irachena ha comportato il diffondersi del terrore tra la maggioranza e di sentimenti di vendetta in una consistente minoranza. Ora questi due atteggiamenti fanno ambedue il gioco dell'amministrazione coloniale americana: i più hanno paura dei marine e di quello che questi ultimi possono fare loro, quelli che reagiscono reagiranno in modo scomposto, cercando un confronto armato impossibile e costoso in termine di perdite di vite umane e assolutamente inutile dal punto di vista della capacità di impensierire la macchina militare americana. Da quanto sappiamo, infatti, si moltiplicano gli attentati contro gli iracheni collaborazionisti e una parte consistente della guerriglia si dedica al più all'antica usanza del rapimento a scopo dimostrativo. L'esigenza di un serio coordinamento tra i gruppi di guerriglia e di costituzione di un'organizzazione militare capace di scegliere obiettivi e strategie non viene per lo più considerato e permette così che un fenomeno numericamente significativo non esprima le sue potenzialità.
In questa situazione una parte degli oppositori come Moqtada-al-Sadr ha deciso di trattare e di individuare un terreno di mediazione che porti la sua fazione a prevalere all'interno dei partiti sciiti e ad imporsi come partito fondamentale nella ricostruzione del paese, un'altra parte legata ai clan che costituivano la base sociale del potere di Saddam Hussein non possono per ora scegliere una strada di questo genere anche perché il governo viene ora gestito dai nemici storici dei clan mafiosi insediati al potere dagli inglesi negli anni venti. In futuro non è per nulla detto che gli USA, di fronte all'assoluta mancanza di credibilità di questi ultimi all'interno del paese, non optino per richiamare a gestire l'Iraq il vecchio quadro politico ed amministrativo che garantiva il potere di Saddam. In fondo per Washington si tratta di garantirsi che l'Iraq resti saldamente una colonia controllata militarmente e gestita economicamente dalle imprese multinazionali la cui testa si trova in America; quale provenienza abbia il personale politico che ne gestirà l'amministrazione non è un problema rilevante, basta che ce ne sia di diversa origine in modo da poterlo giocare l'uno contro l'altro in caso di necessità.
I problemi principali per gli USA sono quelli relativi alla possibilità che la destabilizzazione controllata che hanno provocato in Medio Oriente esca dai binari di gestione che essi si sono dati: la diffusione di azioni di guerriglia in Arabia Saudita e la possibilità di costruzione di un'alleanza tra clan di tutta la penisola arabica, al di la delle differenze religiose, sulla base della parola d'ordine della cacciata degli invasori e della restaurazione di stati indipendenti in grado di gestire la propria ricchezza, costituisce uno scenario la cui possibilità di realizzazione è crescente nel tempo e che potrebbe essere devastante per la gestione americana della neocolonizzazione dell'area. I costi di gestione di una simile eventualità tenderebbero a diventare eccessivi e il tributo di sangue troppo alto anche per una società come quella americana che manda a combattere gli immigrati irregolari che abbiano intenzione di ottenere la cittadinanza a stelle e strisce. La partita è quindi aperta e sicuramente si intensificherà da qui a novembre quando la sfida tra Bush e Kerry deciderà quale sarà il personale politico che dovrà stabilizzare l'Iraq e quale sarà la strategia che verrà adottata per garantire il mantenimento dei vantaggi acquisiti con l'occupazione evitando di pagarne il prezzo.
Giacomo Catrame