Umanità Nova, numero 25 del 18 luglio 2004, Anno 84
"In base ai suddetti principi l'aggressione era diretta soltanto
a sollecitare interiormente l'on Matteotti e persuaderlo a consentire,
cioè a farla finita con la sua campagna contro il Governo
nazionale. La forza usata da Amerigo Dumini e compagni si rivolgeva,
dunque, alla volontà dell'on. Matteotti ed era perciò
forza morale in nulla dissimile da quella che si esercita facendo una
predica [...]. Se il Governo nazionale incarna oggi lo Stato italiano,
se lo Stato è moralità, moralissima fu la violenza
diretta a togliere di mezzo chi ponendosi contro il Governo nazionale
si poneva contro lo Stato e quindi contro la moralità. Al lume
della mia filosofia l'innocenza di Amerigo Dumini e compagni
luminosamente rifulge"
Lettera apocrifa di Giovanni Gentile pubblicata
sul settimanale fascista Rinascita il 17 settembre 1944
Si sa che di notte tutti i gatti sono bigi e che pertanto le differenze
scompaiono. Di conseguenza, in quel buio culturale che ci viene imposto
con pervicacia dalla intelligentsija e dall'informazione di regime, si
annida la volontà di rendere impraticabili le facoltà di
distinguere e di mantenere quella lucidità di giudizio
necessaria per capire la realtà e agire in coerenza con le
proprie idee. Questa in sintesi, anche se tagliata con l'accetta,
è la "filosofia" che sostanzia quel fenomeno pseudoscientifico
chiamato revisionismo storico, con il quale oggi si cerca di
reinterpretare, rivalutandolo, il Ventennio fascista.
In nome della costruzione di una identità nazionale condivisa e di un superficiale abbraccio in grado di ricomporre la profonda frattura sociale che contrappose fascismo ed antifascismo, superando le antiche divisioni ideali e materiali, si assiste da tempo a una vera e propria riscrittura delle cause e delle ragioni degli avvenimenti del secolo scorso, tendente non a recuperare la consapevolezza piena, questa sì ripulita delle incrostazioni ideologiche da tempo sedimentate, della cesura che si operò nel paese durante il fascismo, bensì a rimescolare le carte in modo che colpe e meriti – se così li vogliamo chiamare – si affastellino in un unico calderone dal quale poter estrarre, come alacri apprendisti stregoni, ciò che più piace e conviene ad uso dell'epoca presente. In tutta evidenza non si tratterebbe d'altro che subordinare alle "ragioni" del presente, riscrivendole e stravolgendole, quelle del passato, auspicando che le prime possano tranquillamente affermarsi, più forti che mai, una volta che le seconde siano state rimosse dalla coscienza collettiva della nazione.
Abbiamo assistito recentemente a una delle più chiassose di queste equivoche operazioni "storiche" tese a rivalutare e a restituire all'antica grandezza la figura di una delle più controverse, ma anche più coerenti figure del fascismo: quel Giovanni Gentile, filosofo idealista, sodale di Croce, fondatore dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, presidente dell'Istituto nazionale fascista della cultura, uomo di parte e di partito, che oggi si vorrebbe far passare se non come un oggettivo avversario, per lo meno come un attento critico del totalitarismo fascista, a cui si sarebbe opposto, più o meno apertamente, con la lucidità del grande liberale amante della libertà. Ma Gentile, nonostante gli sforzi dei suoi estimatori appena riesumati dalla pattumiera della storia, non fu affatto quella figura limpida e tollerante che si vorrebbe, e che si è celebrata anche dieci anni orsono, nel cinquantenario della morte, con un francobollo della Repubblica, stampato (ma guarda te le coincidenze!) il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma. Gentile non fu nulla di tutto questo, ma fu, al contrario, uno dei pilastri ideologici del regime fascista, un intellettuale organico come si sarebbe detto un tempo, un fascista della prima ora che dalle altezze della sua formazione idealista e antipositivista cercò di dare lustro etico e dignità culturale a un regime nato all'ombra dei manganelli e dell'olio di ricino. Un uomo talmente convinto della missione ideale del fascismo e talmente preso dal senso dello stato, da ipotizzare e auspicare lo scioglimento del Partito nazionale fascista nello stato stesso, interpretando questa "conversione" come la massima sintesi e la raggiunta perfezione dello stato etico totalitario e fascista.
E a dimostrazione di questa sua concezione aberrante di uno statalismo totalizzante e autoritario, sta un curioso episodio recentemente tornato alla luce. Nel 1925, un anno dopo il delitto Matteotti, il giovane intellettuale antifascista Adriano Tilgher pubblicò presso l'editore Gobetti un'opera intitolata Lo spaccio del bestione trionfante (dove il bestione, evidentemente, stava per Mussolini). In essa compariva una lettera dichiaratamente apocrifa ma provocatoriamente attribuita a Giovanni Gentile, parzialmente riportata in apertura di questo articolo, nella quale il filosofo, con fior di argomenti tanto "etici" quanto capziosi, giustificava l'assassinio del deputato socialista e assolveva l'operato di Dumini e soci, esecutori materiali del delitto, prezzolati e ispirati da Mussolini in persona. La lettera era tanto verosimile e coerente con il pensiero di Gentile, che paradossalmente alcuni giornali fascisti, durante la repubblica di Salò, la fecero propria attribuendola ingenuamente alla farina del sacco del filosofo. Tilgher, evidentemente, aveva saputo cogliere già nel 1925 l'essenza del pensiero gentiliano, segnato dalla più assoluta primazia dello stato etico e, di conseguenza, di quel fascismo che ne seppe essere la massima forza totalitaria e rigeneratrice.
Stato etico e totalitario, dunque. Un connubio micidiale e abominevole che conduce, partendo da simili basi teoriche, alla giustificazione e alla teorizzazione non solo della violenza della squadraccia, ma di quella del partito, ben più pericoloso non tanto fisicamente quanto per il morale stesso del paese, identificandosi nello stato per fondersi e annullarsi idealmente nello Stato stesso. Trasformando così la "normale" violenza dello stato, che fino allora aveva solo una legittimazione utilitaristica come arma di controllo e repressione, in uno strumento di educazione e di normalizzazione di tutti i cittadini. Se questo è il personaggio a cui, pochi mesi orsono, è stata dedicata una intera giornata di celebrazioni in Senato, auspice la seconda carica dello Stato sen. Pera, ci si può rendere conto della oggettiva pericolosità di questo travisamento continuo della recente storia italiana, già avallato, con scellerato spirito bipartisan, dalla precedente terza carica dello Stato, on. Violante, quello resosi famoso per "i ragazzi di Salò".
Due parole, infine, sulla tragica fine del filosofo, che dopo aver aderito pienamente alla Repubblica Sociale alleata ai nazisti ed essersi rifugiato a Firenze, fu ucciso da un gruppo di giovani partigiani comunisti facenti parte dei Gap. Una morte tragica, la morte su un marciapiede fiorentino di un anziano inerme e disarmato, che aveva saputo condannare la persecuzione degli ebrei e che mai si era macchiato, direttamente, di violenze. Una morte, pertanto, che se venisse osservata con le lenti appannate dell'attuale revisionismo, estrapolandola dal contesto in cui maturò, non troverebbe giustificazione o spiegazione. Ma poiché, per un doveroso senso di giustizia e di correttezza, anche quel triste episodio va contestualizzato nei tempo e nelle situazioni in cui maturò, se non una giustificazione (a distanza di tanto tempo forse neppure necessaria), una spiegazione, nel caso di uno dei massimi edificatori di un regime totalitario e dittatoriale responsabile di lutti e sofferenze infinite, la si può certamente trovare. Una spiegazione che nasce dalla consapevolezza delle "alte" basi culturali e ideali sulle quali possono sedersi, a volte, la crudeltà e la violenza dello Stato e del Potere.
Massimo Ortalli