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Umanità Nova, numero 26 del 5 settembre 2004, Anno 84

Iraq. Gli attori e le maschere



Quanto sta avvenendo e quanto è avvenuto negli ultimi mesi in Iraq, potrebbe apparire soltanto come un sempre meno comprensibile spettacolo di continui massacri e terrori contrapposti, alcuni compiuti col fine di un'improbabile pacificazione e altri commessi in nome della lotta contro l'invasore. Come osservato da Mario Ninno di Emergency: "in questa condizione, distinguere i tutori dell'ordine dai fautori del disordine non è facile. Come del resto non è facile stabilire in che cosa consista l'ordine e che cosa lo renda differente dal disordine".
In realtà, se si riesce a sfuggire all'ipnosi di tali orrori pianificati, dietro le quinte di tale insensato e inumano scenario di morte, si possono individuare trame sicuramente ciniche ma di certo tutt'altro che irrazionali.
Gli attori principali sono noti: da una parte le truppe d'occupazione Usa e degli altri Stati loro alleati; dall'altra le diverse resistenze irachene.
Vediamone allora i rispettivi ruoli, cercando anche di intuire regie, mascheramenti e retroscena.

LE FORZE OCCUPANTI

L'intervento militare Usa, che in un anno ha visto l'avvicendamento circa 250.000 soldati e paramilitari, ha riportato e continua a riportare perdite rilevanti anche se comunque circoscritte e messe certo in conto. Pur tuttavia il numero dei militari impiegati continua a crescere ed è innegabile che l'intera operazione stia incontrando sul campo gravi difficoltà, ad opera sia della guerriglia che della persistente ingovernabilità della situazione, tanto che l'ex-generale Tommy Franks ha recentemente parlato di altri cinque anni necessari per il ristabilimento della "normalità" in Iraq.

In Iraq non c'è stata una vera guerra fra eserciti e la "vittoria" statunitense è stata conseguita relativamente a basso prezzo, grazie ad una senz'altro efficace strategia più politica che militare; ma il dopoguerra si è rivelato molto più complesso da pianificare tanto da mandare a monte tutti i wargame del Pentagono. Secondo alcune irriverenti ipotesi il piano originario di invasione, proposto da Wolfowitz nel Defense Planning Guidance 1992 (top secret), sarebbe stato elaborato in dieci anni, mentre quello per il dopoguerra è stato approntato in soli 28 giorni negli uffici delle future ditte appaltatrici; forse non è andata esattamente così, ma di certo la macchina da guerra di quello che pomposamente dovrebbe essere l'Impero, si sta dimostrando tutt'altro che imbattibile.

Il governo Usa probabilmente non si aspettava una resistenza armata così intensa e prolungata; d'altro canto i generali, memori del Vietnam, l'avevano detto: o si aumentano gli effettivi e le spese militari, prendendo il controllo totale dell'Iraq e accettando le conseguenti perdite, o tanto vale tornare a casa. Ma anche un esercito superarmato e ipertecnologico diventa impotente se un'intera società rifiuta di funzionare e collaborare, ed anzi il sabotaggio si afferma come una pratica sempre più diffusa ed efficace che prende di mira oleodotti, pozzi e installazioni petrolifere vitali per l'economia.
Contro i resistenti, i rastrellamenti compiuti dalle truppe occupanti in aree urbane assai popolate si sono rivelati pressoché vani, per non dire persino controproducenti. Occupare, rastrellare casa per casa e magari radere al suolo un intero quartiere, moschee comprese, serve infatti solo ad acuire ed estendere l'avversione popolare. Meglio quindi cercare di costringere allo scoperto i guerriglieri, attirandoli in disperati conflitti a fuoco. Quindi è del tutto evidente che la tattica antiguerriglia scelta dai comandi Usa è quella di spingere all'esasperazione e alla vendetta. È una tattica che, determinando un altissimo numero di vittime civili, tende a impedire che la resistenza si radichi, si organizzi stabilmente, crei strutture permanenti; inoltre, fomentando l'aspetto "barbarico" e indiscriminato, si evitano riflessi sul "fronte interno" negli States e si mettono in difficoltà le solidali opposizioni contro la guerra nel mondo.

Premesso questo si può comprendere che il grande scandalo telecomandato delle torture nel carcere di Abu Ghraib ha avuto sapienti registi, così come forse vi erano dietro l'inspiegabile assedio e le sacrileghe incursioni contro le città sante di Najaf e Kerbala. Colpire il nemico nel profondo col dileggio della dignità umana, l'oltraggio sessuale, l'offesa alla sua morale religiosa, serve a provocarne reazioni cieche, rabbiose e spietate, molto più che le torture fisiche vere e proprie che si è evitato di mostrare in quanto potevano esaltarne l'eroismo. Infatti, dopo quelle immagini, sono puntualmente seguite le esecuzioni e le decapitazioni di ostaggi in differita tv, mentre gli attacchi suicidi registravano un incremento.
Così, ad uso e consumo dei "fronti interni" occidentali, è stato approntato il copione dello scontro tra civiltà. Da una parte un esercito disciplinato, con il sorriso vincente sulle labbra, le divise in ordine e le armi ultramoderne frutto della "nostra" superiorità tecnologica; dall'altra i gruppi d'incappucciati con la scimitarra sacrificale, i nostalgici di Saddam, le bande di straccioni che girano con i loro vecchi Kalashnikov e gli RPG in spalla.
Da una parte la democrazia liberale, dall'altra il fanatismo terrorista, il caos e, naturalmente, l'anarchia.
Del tutto funzionali a tale indirizzo di guerra psicologica, i media si sono gettati sulle foto e i video dell'orrore, non mancando di sottolineare la differenza tra chi sevizia come deviante eccezione della normalità - civile, democratica e regolata da leggi - e chi invece sgozza i prigionieri per via della sua barbara ed arcaica "cultura" del sangue che contempla usi incivili come lapidazioni, mutilazioni ed oppressioni di genere.

È altresì necessario tenere presente che le immagini delle torture si riferiscono all'accertata detenzione di 42.000 iracheni e di altri 20.000 prigionieri in kampi sconosciuti. La politica del terrore diventa quindi palese: da quando è iniziata l'occupazione anglo-americana sono passate ufficialmente attraverso le ex-prigioni del regime e i nuovi kampi 182.000 persone, quindi la maggior parte di esse è stata rilasciata dopo aver conosciuto più o meno direttamente quel tipo di trattamento, con la conseguente diffusione di massa delle loro "terrorizzanti" testimonianze.

LA GUERRIGLIA

In Iraq esiste ormai un vasto fronte di guerriglia che in gran parte sfugge alla comprensione dei cosiddetti "esperti" che, dopo oltre un anno di guerra e neanche alla luce dell'esperienza afgana, continuano a vedere la società irachena come un puzzle etnico-religioso suddiviso fra sciiti, sunniti e raggruppamenti politici vari, sottovalutando il ruolo attivo giocato dall'organizzazione di tipo clanico. Secondo numerosi osservatori, infatti, le realtà collettive che combattono o partecipano alla resistenza contro gli occupanti si aggregano principalmente secondo una struttura sociale verticale che va dal gruppo familiare all'asabyya (una sorta di lega finalizzata a uno scopo) passando dal clan e dalla tribù. Una struttura al cui interno millenni di storia hanno portato sciiti, sunniti e cristiani, che a loro volta sono diventati monarchici, baatisti, "comunisti", nasseriani, ecc. I giornalisti occidentali si sono stupiti di veder combattere insieme sciiti e sunniti vedendovi una specie di alleanza politica-religiosa; ma in realtà si è davanti a convergenze e intese fra tribù trasversalmente composite. D'altronde anche se l'Islam rimane una religione diffusa e seguita, molti giovani iracheni - soprattutto donne - l'avevano già ridotta a fatto secondario nella vita quotidiana, all'interno di una nazione che sotto il regime di Saddam Hussein appariva come la più laica dell'intera area.

Il peso del fondamentalismo, all'interno della resistenza irachena, appare quindi ancora alquanto circoscritto e d'importazione, nonostante il costante tentativo da parte delle forze occupanti di accreditare l'equazione: oppositori-fondamentalisti-terroristi, così come prima dell'aggressione Usa era stata sostenuta la complicità tra il regime di Saddam Hussein e Al Qaeda.

L'Islam semmai si presta ad assumere il carattere di bandiera unificante e identitaria contro l'occupante straniero occidentale, sotto la quale potrebbe formarsi un fronte di liberazione islamico più vasto di quello composto dalle forze nazionaliste irachene, e in grado addirittura di neutralizzare ed assorbire il cosiddetto terrorismo.
Secondo alcune stime la guerriglia contro gli imperialisti e il loro simulacro di governo iracheno, può contare su 70-100.000 combattenti; per il momento, in sintonia con la tradizione beduina, non è diretta da un comando centrale e sembra non aver espresso un vertice. Questo aspetto rappresenta un altro problema per i comandi Usa che preferirebbero di gran lunga avere contro un vertice unico della guerriglia, da liquidare, comprare o cooptare, piuttosto che una resistenza diffusa espressione di un contesto in cui le tribù decidono in autonomia e si vanno sviluppando sul territorio contropoteri popolari a carattere locale.

Tali dinamiche sono rafforzate dal fatto che l'esercito iracheno nel dissolversi ha consegnato e abbandonato in quantità armi, esplosivi e munizioni nel tessuto sociale, tanto che si può fondatamente parlare di popolo in armi.
Allo stato attuale la guerriglia sta dimostrando di poter organizzare operazioni piuttosto vaste e numerose (150 in media alla settimana negli ultimi mesi), distruggendo anche costosi elicotteri da combattimento e carri armati ultramoderni. Ci sono stati attacchi di gruppi coordinati della guerriglia, formati da 50, 100 e anche 300 combattenti. Le battaglie di Falluja e Nassirya hanno evidenziato un'elevata capacità combattiva anche se una scarsa efficienza tattica, dato l'elevatissimo numero di perdite subite tra gli insorti e la popolazione civile.

Ma la potenzialità della resistenza è indicata soprattutto dai continui sabotaggi contro la rete produttiva e distributiva, la cui vigilanza è praticamente impossibile a causa della sua estensione; infatti, la stessa quantità di esplosivo impiegata da un kamikaze per uccidere inutilmente sé stesso, qualche poliziotto e un numero imprecisato di civili innocenti è sufficiente a distruggere obiettivi di grande importanza quali oleodotti, fabbriche, elettrodotti, in grado di paralizzare l'economia interna e rendere l'occupazione straniera un business sempre meno conveniente.
Semmai il problema più rilevante per la resistenza irachena non è tanto di carattere "militare" ma viene dal suo futuro politico e sociale, pesantemente condizionato da un quadro in cui gli sfruttati rischiano la vita combattendo contro l'imperialismo Usa, senza essersi liberati dalle autorità religiose e dalle classi dominanti nazionali, ben contente di vedere immolarsi i proletari iracheni per la causa della Repubblica islamica piuttosto di vederli insorgere contro il capitalismo e le oligarchie nazionali.

IL VICOLO CIECO DI BUSH

I neoconservatori che sono al potere a Washington (ma anche il democratico Kerry non sostiene cose molto diverse riguardo la "guerra preventiva"), dal loro punto di vista, hanno ragione di sentire minacciato lo stesso futuro della nazione. Ben aldilà dell'11 settembre 2001, evento continuamente richiamato e rivissuto, è in gioco l'esistenza stessa del capitalismo, che fa perno sull'economia, sulla politica estera e sulla potenza militare degli Stati Uniti. Ma il capitalismo è fatto anche di concorrenza, e questa è una delle sue intrinseche contraddizioni, perché né i paesi sub-imperialisti europei, né i paesi imperialisti emergenti come Cina e India, né i paesi che posseggono materie prime, possono permettere che il capitale Usa controlli totalmente l'economia di questo mondo globalizzato.

Una sconfitta in Iraq sarebbe una vera bomba per la stabilità dell'intero sistema capitalistico, cresciuto da un secolo sotto l'influenza degli interessi degli Stati Uniti, ed è del tutto evidente che, in un mondo globalizzato, gli interessi delle borghesie che sono alla ricerca della propria sovranità perduta (da quelle europee a quelle di Cina e Giappone) finiscono oggettivamente per coincidere con gli interessi dei guerriglieri in Iraq.

Questa è la vera posta in gioco in Iraq, altrimenti non si comprenderebbe il senso di un conflitto che sta costando agli Usa 150 miliardi di dollari all'anno per conquistare un paese che ne "vale" 58, senza contare i 2.000 già sperperati con risultati fallimentari.
Per questo il terrorismo diventa una pedina essenziale per l'amministrazione Bush per coinvolgere e ricattare sia gli Stati alleati che quelli non-allineati; da qui il costante tentativo di diffondere a livello globale l'allarme terroristico e le minacce di Bin Laden e, in particolare, proprio tra gli "alleati" europei, a costo anche - è da ritenere - di non impedire o direttamente favorire l'esecuzione di attentati terroristici in questi paesi sul tipo di quello avvenuto a Madrid.

Un potere che, in nome della democrazia e della libertà, nell'ultimo mezzo secolo ha bombardato, invaso, avvelenato, ordinato assassini, organizzato stragi e colpi di stato in tutto il mondo, non conosce certo scrupoli morali nell'usare anche questi mezzi per realizzare i propri fini. 

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