Umanità Nova, numero 28 del 19 settembre 2004, Anno 84
Tre anni or sono l'11 settembre. La data spartiacque, quella destinata
a dividere il tempo in "prima" e "poi". E così è stato.
Poco importa che la tragedia delle Torri gemelle sia solo una delle
tante, e non tra le più gravi, che insanguinano questo pianeta.
Ci sono luoghi che significano il mondo ed altri destinati al silenzio.
New York è il cuore dell'impero, l'anima pulsante ed il simbolo
della nostra epoca, Kabul o Baghdad sono territori mitici
dell'immaginario, relegati nel passato anche se presenti e vivi nel
proprio dolente presente. I nuovi barbari, quelli contro i quali tutto
è lecito, dalle bombe alla tortura, affondano le loro radici tra
popoli lontani, diversi, tra popoli ove è facile si sviluppi la
pianta dell'estremismo religioso, della ferocia che rende vana
qualsiasi ipotesi di dialogo, qualsiasi ipotesi di mediazione. In
questi tre anni la guerra infinita al terrorismo ha prodotto lutti
infiniti, distruzioni infinite, terrore infinito. Come un serpente che
si mangia la coda guerra e terrorismo si alimentano vicendevolmente
stretti in un abbraccio mortale, destinato a dar luogo a sempre nuove
tragedie, sempre più forti odi, sempre maggior fanatismo. A ben
guardare la differenza tra guerra e terrorismo sta tutta nel gap
tecnologico, quello che separa le bombe intelligenti dai pugnali ben
affilati, i proiettili all'uranio impoverito dalle cinture al tritolo,
le sbarre di Guantanamo dalle tende dei predoni, la CNN dai video home
made.
Poco importa che le poste in gioco, quelle per le quali si combatte, si uccide e si muore abbiano poco a che fare con la croce e la mezzaluna, con crociati e Saladini ma riguardino il controllo delle risorse energetiche, dei territori, delle vie di comunicazione, dei mercati. Il tema dello scontro di civiltà viene agitato per consentire di spaccare in mondo in due, di dividere tutti, chi ci sta e chi non ci sta, in buoni e cattivi, in amici e nemici.
Gli attori di questa tragedia, i fanatici neocons che siedono alla
Casa Bianca e quelli delle scuole wahabite, i Putin, i Bush, i Bin
Laden non chiedono di meglio che vederci tutti arruolati, ben disposti
come in campo di calcio prima del fischio dell'arbitro: gli uni tutti
da una parte, ciascuno con il suo ruolo deciso alla nascita, e gli
altri sul fronte opposto, anch'essi disposti secondo una precisa
gerarchia.
La guerra ha cominciato ad attraversare le nostre esistenze, divenendo
parte del panorama quotidiano, pur restando sullo sfondo, lontana come
sono lontane New York, Kabul, Baghdad ma anche Mosca, Beslan o Grozny.
Nemmeno dopo l'11 marzo madrileno, nemmeno quando il terrore ha
affondato i propri denti nella carne viva dell'Europa, il Bel Paese si
è scosso dal proprio torpore.
Lo stesso movimento pacifista, sebbene capace, sia pur carsicamente, di
grandi emersioni non è quasi mai stato in grado di uscire dalla
mera dimensione testimoniale, quasi mai ha tentato di gettare un po' di
sabbia negli ingranaggi feroci del militarismo nostrano. Un militarismo
sempre più aggressivo, che succhia avidamente risorse, vite,
futuro a tutti noi. In questi giorni stanno partendo i lavori di
ampliamento della Base della Maddalena, in estate è stato
inaugurato il nuovo porto militare di Taranto ed è stata varata
una nuova gigantesca portaerei. I militari hanno parcheggiato gipponi e
carri armati sin sulle spiagge dei nostri litorali per la propria
campagna di reclutamento. Una campagna che gioca sulle emozioni e le
paure, una campagna che pian piano apre nuove brecce.
Il vergognoso richiamo all'unità nazionale giocato dopo la
strage di Nassiriya e l'assassinio del mercenario Quattrocchi ha
tentato di avvolgerci tutti in un sudario tricolore, lasciando sullo
sfondo le ignominie perpetrate dagli italiani "brava gente", che in
perfetta linea con la tradizione del colonialismo nostrano, fecero
strage di uomini, donne e bambini nella cosiddetta "battaglia dei
ponti".
Il clima a sud delle Alpi si diventa ogni giorno più pesante,
tra un'esternazione e l'altra del ministro di turno, sempre pronto a
costruire teoremi per criminalizzare le lotte sociali, per consolidare
l'equiparazione tra opposizione alla guerra, al militarismo, alle
politiche neoliberiste e terrorismo.
Tuttavia la mano pesante della propaganda, nonostante i continui
allarmi mediatici che hanno attraversato le ferie, non era ancora
riuscita a colpire in profondità, portando l'affondo finale.
Sino alla scorsa settimana. Il rapimento delle due volontarie di "un ponte per…" rischia di divenire uno spartiacque.
Già si sono intese le sirene del nazionalismo bipartisan levare alti i propri ululati, richiamando tutti all'unità contro i cattivi. Cattivi così cattivi che non hanno esitato a colpire i pacifisti, i fautori del dialogo, i costruttori di "ponti". Già di ponti. Abbattere i ponti, far terra bruciata è una tattica di guerra: serve a rompere il morale, isolando l'avversario, rendendolo più debole, indifeso. Oggi il rischio, ed è un rischio serio, è quello che si frantumi irreparabilmente la sottile linea che divide le ragioni della pace da quelle della guerra e tutti, chi più e chi meno finiscano con l'indossare un elmetto. Bianco e nero, buoni e cattivi, vincere o morire: questa è la logica alla quale rischiamo di soccombere, questo è l'interesse dei guerrafondai di tutte le latitudini. Mai come in questi giorni bui, quando ogni mattina può portare la notizia che le due Simona sono andate ad allungare la lista ormai interminabile di questa guerra mondiale tra i nord e i sud del pianeta, emergono con chiarezza i limiti del pacifismo nostrano, un pacifismo incapace di sostenere le proprie ragioni di fronte ad una destra in divisa.
D'altra parte tra i pacifisti stanno quelli che hanno bombardato Serbia e Kossovo in nome dell'umanità, quelli che, sotto la bandiera dell'antimperialismo si schierano con chiunque combatta gli americani, quelli come Bertinotti che, in vista delle annunciate "primarie" della sinistra, strizza l'occhio ai moderati e, con mossa da real politik di togliattiana memoria, mette in secondo piano il tema del ritiro delle truppe italiane dall'Iraq.
Questo pacifismo è destinato a sciogliersi come neve al sole
di fronte a chi agita lo spauracchio dello scontro di civiltà,
della guerra necessaria perché non si può essere
tolleranti con gli intolleranti, liberali con i fanatici, dialoganti
con chi spara sui cooperanti e sgozza i giornalisti.
Poco importa che in nome della libertà e della democrazia USA ed
alleati stiano da mesi bombardando le città dell'Iraq centrale,
che l'agonia di Falluja sia ormai uno scandalo alla luce del sole, che
siano centinaia i prigionieri sequestrati e torturati nelle galere… E
per quel che riguarda i giornalisti le truppe USA alla barbara
scimitarra preferiscono una bella mitragliata in diretta TV.
I pacifisti sempre più invischiati nei "se" e nei "ma" risultano ineffettuali, incapaci di contrastare la martellante propaganda militarista, razzista, forcaiola della destra più becera e retriva. Oggi persino tra i pacifisti non violenti vi è chi tiene a precisare di non essere antimilitarista, chi considera comunque positiva la funzione dell'esercito, finendo così in un cortocircuito logico, facile preda di chi, da militarista e guerrafondaio, si dice pronto a fare la guerra per ottenere la pace. Il più classico ed inossidabile degli ossimori, quello che garantisce che la guerra sia sempre "permanente", estensione, senza soluzione di continuità, della politica.
La pratica antimilitarista rompe con l'immaginario bellico, lo rende impensabile, lo pone fuori dai margini dell'agire politico, quale spazio di mediazione ove l'avversario resta interlocutore e non si muta in nemico da eliminare. La guerra è il luogo fisico e simbolico in cui la mediazione diviene impossibile grazie alla costruzione dell'immagine del nemico, il cattivo per antonomasia, la cui stessa esistenza minaccia la nostra, da eliminare per garantire la propria sopravvivenza. La guerra, che rende impensabile la politica, è altresì il momento più alto in cui si esprimono lo stato, la gerarchia, la massificazione dei corpi e delle coscienze. L'attuale palese asimmetria dei teatri bellici li rende ancor più feroci, mettendo, non casualmente ma in maniera preordinata e del tutto logica, in campo i corpi e le vite dei non combattenti, dei civili che muoiono ben più degli specialisti della morte: soldati in divisa, mercenari, guerriglieri o kamikaze. Ognuno dei contendenti punta sul terrore per imporre il proprio controllo sulle risorse, le vie di comunicazione, le popolazioni, per aggiudicarsi le grandi poste di questo gioco per adulti in cui non vengono risparmiati neppure i bambini, neppure chi alla guerra si oppone costruendo ponti di solidarietà.
Ma. Ma