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Umanità Nova, numero 28 del 19 settembre 2004, Anno 84

La crisi Alitalia
Uno sfascio evitabile




Puntuale come la fine dell'estate, è arrivata al rush finale la crisi della compagnia di bandiera. Dopo una ripetuta serie di accordi con i sindacati, che hanno concesso una tregua senza fine, si sta arrivando all'attacco finale alla sopravvivenza della società così com'è.

La crisi delle compagnie aeree data da molti anni e si può ascrivere a svariate ragioni. A livello europeo è prevalsa, già all'inizio degli anni '90, la scelta di concentrare gli interventi sui tre vettori nazionali più importanti, cioè Lufthansa, British Airways ed Air France. La scarsa determinazione del governo italiano nel difendere Alitalia a livello comunitario ne ha minato, sin da allora, la possibilità di sopravvivere a lungo come soggetto indipendente. A questo si è aggiunta, a livello italiano, la dissennata pratica di concedere l'autorizzazione a volare ad una ventina di piccole aviolinee non tradizionali, che hanno aggredito il mercato domestico con una aggressiva politica commerciale low-cost, sfruttando i vantaggi del precariato e della bassa qualità del servizio (e a volte anche della sicurezza). Queste compagnie hanno eroso il mercato di Alitalia, dapprima lentamente, e poi in modo rovinoso. Tra il 2002 ed i primi sette mesi del 2004, la quota del mercato nazionale detenuta da Alitalia è scesa dal 66% al 45%. Inoltre la creazione del nuovo hub di Malpensa non è stata accompagnata da scelte chiare e coerenti, e la nuova struttura ha significato paradossalmente un rialzo dei costi, delle duplicazioni, degli sprechi. La scelta di Malpensa significava la necessità di ridimensionare Roma e questo avrebbe scatenato una proibitiva lotta con la lobby legata a Fiumicino (a partire dagli interessi di Romiti, che controlla Aeroporti di Roma). A tutto questo si è aggiunto l'effetto 11 settembre, poi la guerra (o meglio le guerre), la paura degli attentati, la crisi del turismo, il calo dei redditi e dei consumi "di lusso", poi la Sars. Questo scenario da incubo è stato affrontato da Alitalia con le scelte strategiche peggiori possibili: mentre tutte le grandi compagnie si concentravano sulle rotte intercontinentali (dove le compagnie low-cost sono fuori gioco), la società italiana decideva di tagliarle per abbattere i costi. Ne è derivato un danno incalcolabile, che è stato sfruttato adeguatamente dai molti avvoltoi che in ogni sede mirano allo smantellamento della compagnia di bandiera, per trarre qualche proficuo vantaggio dallo spezzatino che ne conseguirebbe. 

È noto come a livello europeo si punti alla creazione di un forte consorzio Air-France/Klm/Alitalia, con la compagnia italiana in posizione ancillare rispetto al forte partner franco-olandese (che ha chiuso in utile il suo bilancio 2003). Del mercato italiano interessano ovviamente le forti potenzialità di espansione: le previsioni indicano un aumento del traffico merci e passeggeri dell'ordine del 4-5% annuo, sfruttando anche la particolare configurazione del bacino d'utenza, l'ancora arretrata propensione al trasporto aereo, la dimensione turistica e il forte sviluppo del traffico merci. Si è parlato a ragione di una sorta di "scambio" tra un'Alitalia da cedere (ripulita e risanata) ad Air-France ed il passaggio "sotto le Alpi" dell'Alta Velocità sulla rotta Lione-Torino-Milano-Trieste-Kiev. Il Financial Times preconizza tagli drastici all'organico Alitalia, che sarebbe molto indietro rispetto agli standard di compagnie che hanno già affrontato la crisi con decine di migliaia di licenziamenti, e si spinge a considerare troppo morbido il piano Cimoli, che si "limita" a tagliare 5000 posti di lavoro da qui al 2006. In realtà le cause vere della disastrata situazione finanziaria dell'Alitalia (1,3 miliardi di euro di debito, 500 milioni di euro di perdite nel solo 2003, un aumento di capitale effettuato a luglio 2003 già completamente bruciato dalla perdita di cassa) sarebbero da ricercare in aree ben diverse dal costo del lavoro. 

Il fatturato unitario per ogni dipendente Alitalia è ben superiore a quello di Lufthansa o di British Airways (213.000 euro contro 173.000 e 195.000 euro); il numero di addetti per ogni aeromobile molto inferiore a quello delle altre compagnie; il costo del lavoro incide per il 22% sui costi Alitalia, contro il 30% di Air France ed il 27% di Klm. In realtà sono gli sprechi, le consulenze, il numero abnorme di dirigenti, le commesse e gli appalti affidati alle società dei soliti "amici" che hanno pesato per anni sulla gestione dell'azienda. È comodo scaricare adesso tutto sui lavoratori, fare ricadere sulle loro spalle le responsabilità del fallimento manageriale, indicare al pubblico ludibrio la scarsa flessibilità, il costo del lavoro, la conflittualità eccessiva. Il taglio dei costi per fare cassa, praticato negli anni precedenti, ha finito per fare terra bruciata. Non è bastato spezzettare, frammentare, usare il lavoro precario, per garantire la sopravvivenza dell'azienda. Il crollo dell'ultima fase è dovuto principalmente al taglio unilaterale imposto dall'azienda sulle provvigioni riconosciute alle agenzie che collocavano i suoi biglietti: è stato come regalare traffico alla concorrenza. La mancanza di una propria rete di vendita ha rappresentato una terribile debacle commerciale.

Alitalia gode di uno dei più bassi costi del lavoro del personale di terra: tuttavia questo non è sufficiente a compensare la totale mancanza di una politica commerciale adeguata, di un progetto strategico, di una capacità a cogliere i nuovi flussi di traffico o i mutamenti dei comportamenti sociali.

Il progetto di Cimoli, così come è stato presentato alle nove sigle sindacali dal direttore delle risorse umane Chieli, rappresenta un progetto compiuto ed esplicitato di smantellamento societario. La proposta prevede la creazione di due nuove società: Az Fly, con 11.700 dipendenti, comprenderebbe il personale di volo; Az-Service, con 9.000 addetti, dovrebbe fornire servizi al volo, anche ad altri soggetti. Naturalmente un addetto su quattro degli attuali dipendenti dovrebbe fare le valigie. Az-Fly è destinata a sopravvivere, sarebbe la destinataria dell'aumento di capitale da due miliardi di euro entro marzo 2005, finirebbe privatizzata, con nuovi soci e con un possibile happy-end finale, costituito dalla fusione con Air-France/Klm. Az Service invece è la nuova versione della "bad-company", destinata a cambiare base contrattuale, con salari più bassi e norme più flessibili, l'assorbimento di tutti i debiti attuali ed un futuro al alto rischio. 

L'azienda ha posto la questione in forma ultimativa: accordo sindacale entro il 15/9, perché entro la fine del mese finisce la cassa e non si sono più soldi nemmeno per gli stipendi; in caso contrario, salta il prestito ponte da 400 milioni di euro e si va verso la liquidazione della società.

Naturalmente siamo certi che l'accordo arriverà, perché sarebbe davvero strano che dopo i tre accordi di tregua firmati da confederali ed autonomi dal 29/12/2003 al 6/5/2004, queste sigle decidessero qualcosa che tenesse davvero conto delle ragioni e degli interessi dei lavoratori. Il ricatto accordo o fallimento non può non funzionare, dal come si sono messe le cose. 

Ancora una volta si rinuncia ad un pezzo importante di politica industriale del sistema Italia, in favore di una scelta miope e di corto respiro. Le competenze e le ricadute tecnologiche/organizzative di una presenza produttiva importante come quella del vettore aereo nazionale rischiano di andare perdute per una decennale politica di errori gestionali e politici.

Il rifinanziamento della compagnia di bandiera da parte dello stato, fino a portarla a nuovi livelli di efficienza e redditività, sarebbe possibile e compatibile con i vincoli comunitari in materia. La normativa comunitaria consente infatti l'intervento pubblico a certe condizioni: l'importante è che l'azionista pubblico faccia scelte coerenti con la salvaguardia ed il risanamento del suo capitale aziendale, esattamente come farebbe un privato che si muove in una logica di mercato. Queste risorse potrebbero essere trovate e spese per ricostruire un capitale pubblico che rischia di andare perduto, stornandole da altri impieghi irrazionali o dannosi come il ponte sullo Stretto, l'Alta Velocità o le nuove tratte autostradali. Sarebbe una scelta lungimirante che produrrebbe un aumento della dotazione infrastrutturale del paese, salvando qualcosa di utile e anche profittevole sul medio-lungo periodo. 

Questa scelta, improbabile, non può certo scaturire da quei centri di potere che hanno portato all'attuale sfascio della compagnia. Potrebbe, diciamo potrebbe, imporsi soltanto come la conseguenza di una lotta forte e compatta dei lavoratori Alitalia, che sapesse trovare una saldatura con gli altri settori del lavoro e della società, senza nessuno spazio a derive corporative. Si tratta di una scommessa molto azzardata, da giocarsi in un lasso di tempo molto concentrato. Forse siamo ancora in tempo…

Renato Strumia


















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