Umanità Nova, numero 29 del 26 settembre 2004, Anno 84
Gli eventi iracheni di questa estate dimostrano che la guerra nel paese
asiatico è destinata a durare a lungo e che ogni tregua, ogni
parziale successo dell'occupante americano è destinato ad aprire
nuovi problemi e nuovi conflitti che vengono solamente rimandati nel
tempo. Questa lettura permette di verificare come gli USA non siano in
grado a breve termine di porre fine alla vera e propria insurrezione
contro l'occupazione e come siano ancora meno in grado di farsi
sostituire dal governo fantoccio presieduto dall'ex agente della CIA
Allawi e dal nuovo esercito iracheno. Istituzione che, insieme alla
nuova polizia irachena, è quella più bersagliata dalla
guerriglia e che sta pagando il più alto tributo di sangue nei
combattimenti a partire da giugno. D'altra parte per il governo
iracheno e per le sue istituzioni la perdita di ingenti forze
rappresenta l'unico strumento che può permettere a questa
accolita malconcia di collaborazionisti di presentarsi con qualche
credibilità come governo effettivo del paese e che può
permettere agli USA di avviare seriamente l'irachizzazione del
conflitto. Fino a questo momento, però, l'obiettivo è
fallito largamente e non se ne intravede la realizzazione in un futuro
prossimo: le trattative con Moqtada al-Sadr e con la sua milizia sono
state condotte dagli americani e lo stesso dicasi per l'offensiva
contro Falluja e contro Tall Afar condotta in modo preponderante dalle
forze di Washington.
La tregua concordata con Moqtada al-Sadr al termine di una nuova fase di scontri che hanno rischiato di degenerare nell'insurrezione religiosa a causa dell'assedio posto al più sacro dei luoghi santi sciiti, si presta a tre considerazioni: la prima è la relativa vittoria dell'imam ribelle che ha visto riconosciuto il suo ruolo politico in cambio della smilitarizzazione delle sue milizie, la seconda è il parziale successo degli americani che sono riusciti a ridimensionare e normalizzare un pericoloso contendente al potere nel paese a vantaggio del governo fantoccio imposto da Washington, successo relativizzato dal fatto che le trattative siano state compiute da inviati USA e non dal governo iracheno con esiti di svalutazione interna del governo stesso; la terza considerazione è la più importante: le tregua è stata raggiunta grazie alla mediazione di al-Sistani, l'ayatollah più importante in Iraq, ispiratore dello SCIRI e uomo vicino a Teheran. In questo modo il ruolo della leadership religiosa sciita e quello dell'Iran nei destini del paese viene rafforzato e guadagna una patente di legittimità rilasciata nei fatti dagli stessi Stati Uniti. Per Washington tale mossa era del tutto necessaria al fine di trovare una sistemazione del Sud del paese che gli consentisse il lancio dell'offensiva nel Nord e la chiusura di una situazione che vede le tribù sannite dell'area a nord di Baghdad controllare in modo pressoché totale il territorio. Si aggiunga a questo dato quello che vede le tribù del triangolo sunnita, in quanto legate strettamente al potere baathista e a quello personale di Saddam Hussein e della sua famiglia, come irriducibili all'imposizione di un governo filoamericano gestito dagli eredi della vecchia mafia legata alla dinastia hascemita cacciata dal paese nel 1958, mentre la leadership sciita viene percepita come più disponibile alla mediazione e alla condivisione del potere centrale in cambio del controllo di fatto dell'ambito locale. Resta il fato che, sul medio periodo, le aspirazioni sia dello SCIRI che dell'ala radicale legata a Moqtada al-Sadr alla fondazione di una repubblica islamica, per i primi sul modello di Teheran, per il secondo più simile al Libano di Hezbollah, non potrà che portare al riaprirsi dello scontro tra gli Strati Uniti e i governi iracheni da loro dipendenti e la leadership sciita i cui seguaci, come di è visto nel corso dell'assedio a Najaf e ai luoghi santi, non sono solo correligionari ma appartenenti a tutte le tribù del paese stanziate da Baghdad fino al confine del Kuwait che riconoscono ai partiti sciiti la capacità di leadership politica che oggi manca alle tribù e ai loro sceriffi in quanto tali.
La riapertura dello scontro tra Stati Uniti ed Israele con l'Iran in sede di commissione ONU per l'energia atomica (AIEA) del quale abbiamo dato conto su UN la scorsa settimana è spiegabile anche, se non esclusivamente, con la situazione che si è venuta a verificare in Iraq con la tregua con Moqtada al-Sadr; gli USA dovendo di fatto riconoscere un ruolo di stabilizzazione all'Iran nella vicenda irachena, colgono l'occasione sul terreno dell'armamento atomico per attaccare questo paese e minacciarlo di un intervento diretto che non verrebbe gestito da Washington ma dal fedele alleato israeliano, che verrebbe presentato come un pericoloso estremista quando invece i governi del paese ebraico agiscono da dopo il 1956 in modo esclusivo come prima linea e truppe di sfondamento degli interessi americani. L'episodio del bombardamento israeliano della centrale atomica costruita dall'Iraq nel 1981, proprio quando Baghdad era impegnata a combattere l'Iran degli ayatollah per conto occidentale, insegna. I vassalli locali possono e devono essere riforniti di tutto il necessario per condurre la politica richiesta da Washington e dalle altre capitali occidentali ma non devono poter pensare di rendersi autonomi per quanto riguarda l'armamento e la produzione energetica e quella industriale di tipo strategico. Se questo rischia di avvenire è il poliziotto israeliano ad occuparsi di richiamare all'ordine chi sgarra con argomenti solitamente convincenti, tanto il gioco delle parti è assicurato: condanna dell'ONU e veto americano a qualsiasi decisione possa davvero danneggiare lo stato ebraico. La differenza tra ieri e oggi, però è costituita dal fatto che l'Iran si trova le truppe americane (e l'intelligence israeliana) ai confini di casa e potrebbe decidere di reagire diversamente da quanto fece Saddam ventitré anni fa, con questo rischiando di scatenare una reazione a catena che infiammerebbe il Medio Oriente portandolo sull'orlo di un conflitto nucleare.
L'offensiva contro Falluja e il Nord del paese, a differenza di quella a Sud non credo terminerà con una tregua. Gli Stati Uniti sembrano decisi in questo caso a chiudere in modo definitivo con la guerriglia nazionalista in quell'area del paese e a riconquistare il controllo delle strade e delle comunicazioni verso il Kurdistan e la Turchia. La ferocia dell'offensiva, il fatto che non sia limitata alle truppe di terra e ai combattimenti contro le milizie ma si muova sul terreno della guerra ai civili con bombardamenti a tappeto e distruzioni di case, scuole ed ospedali fa intuire che gli USA siano intenzionati a svolgere un'azione definitiva nei confronti delle tribù locali e delle milizie baathiste. Si parla già di alcune centinaia di morti e l'avanzata delle truppe di terra per ora non avviene perché l'esercito sta aspettando che il lavoro sterminatore dell'aviazione ottenga i suoi risultati con la distruzione delle città e dei villaggi ribelli e con la resa e la fuga della popolazione. Alla faccia di che ritiene barbari solo gli assassini di Beslan… Gli infanticidi commessi dalle truppe occidentali ottengono meno attenzione di quelli di cui sono vittime bambini "civilizzati", ma i corpi di neonati e ragazzini iracheni in età da scuola elementare sono lì ad accusare in modo esplicito l'Occidente della stessa barbarie che rimprovera ai suoi nemici.
In questo quadro di guerra continua e profonda distruzione del paese la componente islamica ed internazionalista della guerriglia sta prendendo sempre più piede grazie anche all'uso spregiudicato della tattica delle autobomba e dei rapimenti mirati a pubblicizzare la propria esistenza e la propria potenza. Al di la della campagna mediatica USA contro il supposto inviato locale di Bin laden, il giordano al-Zawahiri, è chiaro come questa componente dell'opposizione agli americani si stia radicando nel paese e prenda forza dalla politica americana volta a colpire soprattutto la componente nazionalista di ispirazione baathista che Washington individua come l'ostacolo principale in questa fase per il conseguimento del controllo del paese. Spesso, inoltre, gli obiettivi dei due contendenti coincidono come quando i fondamentalisti colpirono duramente gli sciiti durante la festa dell'Ashura cercando di scatenare la guerra civile interreligiosa nel paese. L'esistenza di sentenze religiose in campo sunnita che autorizzano la guerra santa agli sciiti va nello stesso senso: sia gli islamismi che gli americani hanno interesse a cancellare le forze nazionaliste laiche dall'Iraq e a relativizzare la componente sciita rafforzando il senso di appartenenza religioso a scapito di quello tribale e clanico. Per entrambi riuscire in questa impresa vorrebbe dire porre le basi per il controllo assoluto e non condiviso del paese. A questo punto l'Iraq diventerebbe uno dei campi di battaglia dello scontro internazionale per il controllo delle risorse energetiche dell'area islamica tra gli Stati Uniti e una nuova aggressiva classe dominante arabo-islamica giustificata dall'uso spregiudicato della variante wahabita della religione islamica.
I recenti rapimenti, infine, sembrano entrare nella stessa logica di
collaborazione tra nemici al fine di eliminare gli altri concorrenti
dal tavolo da gioco. Gli islamici ottengono visibilità mentre
gli USA possono dimostrare alla recalcitrante opinione pubblica europea
che lo scontro è di civiltà, tra "noi" e "loro".
Giornalisti di sinistra e reporter di un paese contrario come la
Francia e, last but not least, due giovani volontarie non solo
pacifiste e di sinistra ma anche attente e rispettose dei costumi
locali come dimostrano le molte foto delle due Simone con il velo.
Senza sospettare necessariamente l'intervento dei servizi segreti
occidentali (o, più probabilmente nel caso, vista la conoscenza
del territorio, israeliani) come fanno fonti autorevoli quali il
portavoce del Consiglio degli Ulema sanniti o la stampa europea, sembra
chiaro che queste azioni corrispondono a un comune interesse tra gli
occupanti e una quella parte della guerriglia che con i primi condivide
l'impostazione dello guerra civile mondiale senza alcuna
possibilità di mediazione o di posizioni più articolate
del "o di qua o di la".
Giacomo Catrame