Umanità Nova, numero 30 del 3 ottobre 2004, Anno 84
A Lagopesole un ennesimo "incidente" sul lavoro è costato la
vita a due operai addetti alla manutenzione della linea ferroviaria che
collega Foggia con Potenza, altri cinque sono rimasti feriti.
Li chiamano "incidenti", l'espressione che si usa per indicare accadimenti tragici ma casuali, nel novero delle cose che "capitano" a chi non ha fortuna, come perire in un terremoto o durante un'alluvione. Sappiamo bene che terremoti, alluvioni o, per restare all'attualità, uragani mietono vittime a centinaia e a migliaia quando si abbattono là dove la povertà costringe la gente in abitazioni fatiscenti, dove la protezione civile è un lusso per altri mondi. Quando toccano i paesi ricchi, il numero dei morti è incomparabilmente inferiore. Le Ferrovie italiane dopo il terremoto delle privatizzazioni ed il massiccio ridimensionamento del numero degli addetti, con conseguente riduzione dei controlli sulla sicurezza, sono ormai esposte agli "incidenti" come i poveracci di Haiti lo sono agli uragani. Sotto questi cieli l'unica "disgrazia" degna di questo nome, l'unico "incidente" è nascere dalla parte sbagliata del mondo, tra coloro che per campare sono obbligati svendere lavorando la propria vita.
Sul fronte del lavoro, oltre al quotidiano bilancio dei morti e dei feriti, vittime della ferocia di classe e, quindi, iscritti nel novero delle "tragiche fatalità", la guerra per garantire sempre maggiori profitti a chi vive del lavoro altrui si sta facendo sempre più aspra, senza esclusione di colpi.
La conclusione della vicenda Alitalia in cui il prezzo della crisi
è stato pagato pesantemente dai lavoratori che hanno dovuto
subire licenziamenti, aumento dell'orario lavorativo e riduzione dei
salari, è in tal senso emblematica dell'attitudine padronale a
mettere sul conto di chi lavora le perdite e sul proprio i profitti.
Passando dall'aereo al tram ci troviamo di fronte l'offensiva
giudiziaria contro i tranvieri milanesi, "rei" di aver scioperato fuori
dalle regole per ottenere una manciata di quattrini già
ampiamente guadagnati. Ma le regole, lo sappiamo bene, le scrivono i
padroni del vapore e non gli autisti. Interessante rilevare che
l'attacco della categoria più amata dal centrosinistra, quella
giudiziaria, avvenga in coincidenza con il riscaldarsi della vertenza
per il rinnovo del contratto di categoria. Un caso, una insignificante
coincidenza? A pensar male si fa peccato ma…
Nella scuola, in cui la resistenza alla morattizzazione è peraltro ampia e diffusa, le parole d'ordine sono controllo, disciplina, gerarchia. La scuola azienda per poter esplicare sino in fondo la propria vocazione deve saper educare alla materia più difficile: l'obbedienza. È una scuola "moderna" dal sapore antico, ingentilita dalla folta presenza di ecclesiastici, a ben vedere l'unico significativo investimento all'interno della scuola pubblica, altrimenti abbandonata al degrado e, per il resto, gettata sul mercato. La caccia allo studente di alcuni istituti superiori ha toni di propaganda infervorata che trovano l'equivalente solo nelle campagne arruolamento dell'esercito. D'altra parte l'attitudine a rendere operativo un modello educativo eminentemente disciplinare riporta sinistramente in auge la ben nota contiguità della scuola con la fabbrica, il carcere, il convento, la caserma. Manca solo il filo spinato, perché le telecamere stanno cominciando a fare capolino in molti istituti, assieme a tesserini elettronici in sostituzione del vecchio registro delle presenze. In una scuola romana sono addirittura spuntati i carabinieri, venuti ad indagare chi, in quella scuola, trovasse indigesta la morattizzazione della vita quotidiana. Evidentemente la diffusa opposizione all'introduzione dei libri di testo "riformati", la lotta contro la gerarchizzazione della funzione docente implicata dalla figura del tutor, quella contro la riduzione della scuola per l'infanzia a deposito per bambini innervosisce l'esecutivo al punto da ridurre la questione a problema di ordine pubblico.
Se poi ci capita di abbassare le sguardo ci accorgiamo che la terra è più bassa del solito, nelle zone dove la raccolta dei pomodori e la vendemmia parlano arabo, swaili, romanes. È il regno del caporale, l'infame che decide della vita dei pezzenti che ha di fronte, decide chi lavora e chi no, chi mangia e chi no, chi ha una possibilità e chi no. In Piemonte o in Trentino il "tempo delle mele" non è un vecchio film sdolcinato ma il sudore e la fatica di chi oggi lavora il doppio per la metà. Ed il paragone è solo di un paio di lustri orsono, quando certi lavori già li facevano in pochi e quei pochi misuravano la giornata con il sole e i soldi, sempre maledettamente scarsi, sempre in nero, fuori busta. Tra i "dannati della nostra terra" il miraggio è il caporale che ti pesca dal mucchio. Lottare, organizzarsi sono verbi che nessuno sa coniugare, fanno parte, come le case, le carte in regola, i diritti, la sanità, del mondo di sopra, quello dove chi lotta è un privilegiato.
In questo secondo autunno di guerra, mentre le truppe italiane occupano l'Iraq e l'Afganistan, si annuncia una stangata feroce, per garantire che i privilegiati restino tali ed i guerrafondai abbiano risorse per alimentare l'industria della morte. E per chi protesta, per chi non ci sta la strategia è chiara sin da agosto, quando il solerte democristiano che regge il Ministero dell'Interno già annunciava che il brodo di coltura del nuovo terrorismo è il sindacalismo di base, le strutture di autorganizzazione dei lavoratori. Dopo la guerra preventiva è arrivata la criminalizzazione preventiva, mirante a intimidire e isolare chi si oppone al processo di "normalizzazione" dei rapporti sociali che nell'ultimo ventennio ha seppellito decenni di lotte, macinando diritti acquisiti, libertà, reddito, tempo e qualità di vita.
Quella che abbiamo di fronte è una strada tutta in salita. Numerosi sono gli strapiombi, i passaggi vertiginosi e difficili, numerose sono le insidie nascoste lungo il cammino. Eppure non si può far altro che salire, perché in basso la prospettiva è ben peggiore.
E salendo, pur tra fatica e bestemmie, diviene necessario fermarsi
di tanto in tanto per guardare lontano, per non correre il rischio di
vedere solo la polvere delle proprie scarpe.
La scommessa è quella di sempre: coniugare la radicalità
delle lotte con il radicamento sociale, nella consapevolezza che la
costruzione di un tessuto connettivo solidale ed efficace deve
attraversare un deserto fatto di frantumazione territoriale delle
produzioni, che quando mantengono un "luogo" fisico, ospitano al
proprio interno figure professionali diverse, con diversi contratti e
persino con diversi padroni. Tutto ciò dentro un quadro
normativo che con la legge 30 e la Bossi-Fini produce una miscela
esplosiva in cui l'ineguaglianza è stabilita per legge. Se a
ciò si aggiungono i mille impedimenti legali all'esercizio del
diritto di sciopero nel pubblico impiego abbiamo un quadro in cui
sempre più le lotte per essere realmente efficaci, per far male
al padrone al punto di farlo cedere, finiscono necessariamente con
l'entrare in rotta di collisione con le regole del gioco. In
quest'ultimo anno è stato ben chiaro a tutti che chi ha portato
a casa qualcosa lo ha fatto perché se ne è infischiato
delle regole, perché ha scioperato "selvaggiamente" come i
tranvieri, perché si messo di traverso sull'autostrada e la
ferrovia come gli abitanti di Scanzano Jonico.
Le multe ai tranvieri e le cariche ad Acerra dimostrano che il governo è disposto a picchiare duro, mentre l'opposizione sociale solo episodicamente mostra la capacità di reagire, di andare al contrattacco.
I meccanismi infernali innescati dalla legge 30 e dalla Bossi-Fini non fanno che accentuare un processo di frantumazione di lunga data. Servono ponti, reti di solidarietà e di sostegno alle lotte, serve capacità di connettere lo scontro sui posti di lavoro, con quello sul territorio, per la casa, i servizi, contro il carovita e lo scempio ambientale.
Guerra interna e guerra esterna hanno lo stesso fronte: ne sono vittime gli sfruttati, gli oppressi, i senza potere. Il fronte del lavoro non è che l'altra faccia della guerra in Iraq e Afganistan. Guerre feroci senza esclusione di colpi sia che si combattano in terre lontane sia che attraversino le nostre esistenze. Occorre passare dalla resistenza alla proposta, all'azione diretta, fuori e contro le regole scritte per trasformare la lotta in reato, fuori e contro le gabbie della concertazione, le gabbie in cui padroni e sindacati di Stato hanno rinchiuso le nostre vite. Alcuni segnali positivi ci sono: dalle esperienze di autorganizzazione dei migranti bolognesi ai primi scioperi per il contratto dei tranvieri milanesi, dalle iniziative contro la morattizzazione della scuola alla lotta contro l'inceneritore di Acerra che va avanti in barba alla repressione.
Vogliamo credere che il capitalismo, lo sfruttamento selvaggio da parte di chi lucra quotidianamente sulle nostre vite non sia una "tragica (ed inevitabile) fatalità".
Facciamo in modo che la "sfortuna" cambi di campo.
Maria Matteo