Umanità Nova, numero 30 del 3 ottobre 2004, Anno 84
Come era immaginabile la tragedia di Beslan sta producendo le sue prime
conseguenze nell'assetto istituzionale della Russia. Il presidente
Putin, con una mossa degna di un colpo di stato, ha decretato che i
governatori delle regioni e i presidenti delle repubbliche autonome
della Russia non verranno più eletti ma direttamente nominati da
lui stesso e solo successivamente la loro nomina verrà
sottoposta a ratifica da parte dei parlamenti locali. In questo modo
Putin si assicura il controllo locale delle regioni periferiche
dell'immenso paese, e quello del Consiglio della Federazione (il Senato
russo) tra i cui componenti vi sono i presidenti delle repubbliche
autonome e i governatori. Putin già controllava completamente la
Duma grazie al risultato elettorale del suo partito "Russia Unita", la
sostanziale alleanza con l'estrema destra di Zhirinovskij e quella del
partito "Patria", e la sostanziale inesistenza dell'unico partito di
opposizione rimasto, quello comunista diretto dal vecchio stalinista
Ziuganov uscito con le ossa rotte dalle ultime elezioni e diviso tra i
nostalgici del passato regime, i nazional-patrioti che dieci anni fa
diedero vita al fronte rosso-bruno con le forze dell'estrema destra
nazionalista, e i realisti tentati dalle offerte di Putin in materia di
posti di responsabilità e di finanziamenti pubblici ai partiti.
Altrettanto ferreo è il controllo del Presidente sulle
televisioni e sulla stampa come ha dimostrato la vicenda del
licenziamento del direttore delle Izvestija "reo" di aver criticato il
comportamento delle forze di sicurezza a Beslan, e quello sulla
magistratura che sta operando come braccio armato di Putin nella sua
guerra contro gli oligarchi troppo filoamericani e, soprattutto, ostili
alla sua ascesa al potere assoluto.
La decapitazione degli organismi democratici periferici è
l'ultimo tassello necessario all'ex agente del KGB per costruire un
regime formalmente parlamentare e di fatto controllato da un gruppo
dirigente sostanzialmente espresso dall'esercito e dalla nomenklatura
statale del paese. La Russia liberal-liberista di Eltsin e dei
finanzieri russi viene messa in soffitta a favore della costruzione di
una Russia autoritaria e centralistica e con un'economia meno aperta e
finanziarizzata e maggiormente "nazionale", ossia in mano a uomini
dell'apparato politico più interessati allo sviluppo industriale
che al denaro facile delle borse internazionali. Alla svolta
nazionalista in economia non può che corrispondere una svolta
autoritaria in campo interno e una aggressiva in politica estera. Le
tre cose, infatti, stanno assieme: un paese con un'economia fortemente
protezionista e chiuso all'acquisizione delle proprie ricchezze e
industrie da parte dei capitali esteri non può che essere
diretto in modo autocratico e aggressivo verso l'esterno, almeno in un
tempo come questo segnato dall'egemonia dell'accumulazione finanziaria
mondiale la cui guida resta saldamente in mano ai capitali americani e,
in subordine, a quelli dell'Europa occidentale. Una Russia maggiormente
protezionista non può che infastidire la globalizzazione
capitalistica che necessita di frontiere (per i capitali, of course)
aperte e di governanti attenti innanzitutto alla redditività
delle borse azionarie. Un regime interessato invece maggiormente al
proprio sviluppo interno e con velleità da media potenza con una
propria area di influenza è sottoposto al quotidiano assedio
politico e ideologico prima che militare da parte della cosiddetta
"comunità internazionale" a guida USA. È quasi naturale,
in una situazione di questo genere il suo scivolamento
nell'autoritarismo politico più bieco.
Inoltre la presenza di settori della classe dominante russa legati al
carro del capitale finanziario internazionale e interessati alla
svendita sotto costo delle ricchezze russe non può che favorire
ulteriormente il ricorso agli strumenti della dittatura da parte dei
settori "nazionali" della stessa classe dominante. A questo quadro si
deve aggiungere che il governo russo ha varato una decisa riduzione del
welfare state, sostituendo prestazioni assistenziali con voucher in
denaro minacciati di svalutazione dal corso non proprio felice del
rublo, creando motivi di forte malcontento tra le classi dominanti
delle città della Russia e il rischio di un corto circuito tra
le proteste probabili di lavoratori e pensionati e il tentativo degli
oligarchi di scalzare Putin a favore di un Presidente più
accomodante nei confronti degli interessi dei finanzieri.
Sul piano internazionale, poi, si deve ricordare che la Russia sta tentando di ricostruire un simulacro di URSS costituendo un mercato comune con Bielorussia, Ucraina, Armenia e Kazakistan, con la prospettiva di rendere più forti in un prossimo futuro anche i legami politici e militari (già molto forti con l'Armenia) e questo progetto non è apprezzato dagli USA dal momento che tende a mettere in discussione il controllo di Washington sulle risorse energetiche del Caspio e, in prospettiva, della stessa Russia. I rapporti con Francia e Germania, tuttora poco sviluppati soprattutto a causa della forte integrazione dei paesi europei con l'economia americana, fattore che li rende poco propensi a tirare troppo la corda con l'Amministrazione americana, potrebbero in futuro svilupparsi a causa dell'evidente vantaggio che i paesi europei avrebbero dal rapporto con un paese debole industrialmente ma ricco di materie prime con il prezzo non mediato dal mercato americano. Quest'ultima prospettiva non è all'ordine del giorno ma è tenuta ben presente dagli strateghi americani che vi vedono il pericolo di una futura perdita di controllo sull'intera Europa.
In altre parole vi sono ottime ragioni per considerare la Russia un terreno di battaglia centrale per la continuità del controllo americano sull'economia mondo capitalistica. In questo quadro l'autoritarismo di Putin può essere inquadrato non diversamente da quello di un paese come la Cina che per mantenere la propria classe dominante al potere sviluppando il proprio capitalismo mantiene un regime autoritario la cui giustificazione contrasta ormai anche con le apparenze della sua realtà. La storia dei capitalismi tardivi, d'altra parte e delle borghesie incapaci di determinare lo sviluppo nazionale del paese di appartenenza, d'altronde, è da sempre una storia di autoritarismi più o meno feroci e dittatoriali, dalla Germania all'Italia, dai paesi asiatici a quelli dell'Europa orientale. L'aggressività in politica estera, all'interno di un mercato capitalistico mondiale controllato da altri paesi e altre classi dominanti, è un'altra delle caratteristiche fisse di tali paesi, e la Russia non fa differenza né potrebbe d'altronde farlo.
A inizio del XXI secolo ancora una volta le storia dello sviluppo capitalistico si conferma come sfida per il controllo del mercato mondiale tra classi dominanti formalmente democratiche grazie al loro controllo sulla produzione mondiale di ricchezza, e classi dominanti periferiche necessariamente autoritarie perché spinte per affermarsi a spezzare l'altrui controllo su tale mercato. A ogni costo, anche di quello della guerra che si conferma sbocco possibile di questo scontro e normale conseguenza della ricerca del profitto e non tragico sviluppo della "volontà di potenza" delle élite dominanti dei paesi periferici. Le conseguenze tragiche dell'agire di queste ultime, infatti, non sono il precipitato delle caratteristiche politiche di questi regimi, ma piuttosto sono tali caratteristiche a essere spiegate dalla ferocia dello scontro e dalla posizione subordinata che tali classi assumono nell'ambito della gerarchia di potenza mondiale.
Giacomo Catrame