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Umanità Nova, numero 31 del 10 ottobre 2004, Anno 84

Nigeria. Miseria e petrolio



Uno sprazzo di luce mediatica ha inondato la Nigeria alcuni giorni addietro, come se a giustificarlo fosse avvenuto qualcosa degno di nota. In effetti, la chiusura di un impianto della Shell può fare notizia, anche se tale risultato non è frutto delle campagne di boicottaggio che una decina di anni or sono punirono la multinazionale anglo-olandese per aver sfruttato oltre misura la popolazione degli Ogoni. Ken Saro Wiwa era il loro leader culturale, poeta anglofono, impiccato dal legittimo governo di allora, complice come sempre degli introiti dei petrodollari che dagli impianti offshore giungevano direttamente alla capitale, sorvolando i territori locali da cui veniva estratto il petrolio maledetto, per gli Ogoni, che chiedevano una quota parte dei profitti per costruire scuole per i bambini. Non se ne fece niente, l'unica ricaduta sul territorio dell'estrazione petrolifera sono i furti e le perdite dagli oleodotti che attraversano il terreno, inondandolo di liquido nero da raccattare e rivendere. Con qualche piccolo inconveniente, come quando una piccola scintilla innesca una miscela esplosiva, provocando centinaia di vittime.

Dopo dieci anni, la guerriglia locale, stanca di vedersi bombardata dagli elicotteri delle imprese che servono pure a trasportare le truppe governative - questa è l'accusa mossa a Shell e Eni - ha colto al volo il delicato momento dei mercati petroliferi, incendiati in più punti, dall'Iraq al Caspio (Cecenia, affaire Yukos), dal Venezuela al Messico. Già le turbolenze belliche e conflittuali sono indicatori sensibili del funzionamento di mercati ad alta esposizione ad attacchi - come ogni mercato che conta su filiere rigide di produzione e distribuzione: impianti visibili e ingombranti, migliaia di chilometri di oleodotti in parte sotterranei, in parte rasoterra, talvolta sommersi; se a questo aggiungiamo le ennesime dispute retoriche sulle capacità di estrazione da parte dei paesi produttori, specie in tempi di crisi in cui la soglia ai fini della sensibilità delle borse è data dal differenziale aggiuntivo che ciascun paese è in grado di attivare nelle emergenze per compensare impennate dettate da alto dispendio energetico (e operazioni militari sono esemplari, con l'impiego simultaneo di aerei, navi e tank), il prezzo al consumo sale alle stelle e continuerà a salire, per la felicità delle multinazionali, degli investitori e degli stati fiscali.
La guerriglia mette in scacco il quinto produttore ed il settimo esportatore mondiale, minacciando il legame di ferro, pardon di olio nero, tra governi e imprese, con l'arma alla moda oggi: il sequestro di civili impiegati che tanto fa tremare i governi occidentali sotto l'onda d'urto dell'inquietudine popolare. Probabilmente Shell e Eni prenderanno contromisure, tutelate dai dollari investiti in sicurezza privata e pilotando le risorse sicuritarie pubbliche, avendo per di più il vantaggio di operare al largo dell'oceano su piattaforme esposte a tanti pericoli, ma ancora non all'arrembaggio (tipica impresa dei mari asiatici).
Probabilmente nulla seguirà alle minacce, già il governo locale ha ottenuto una tregua nelle operazioni di guerriglia e controguerriglia, ma intanto la Nigeria si affianca alla formazione di stati che viene messa in condizione di schierarsi con gli americani nella lotta al terrorismo planetario (facendo di tutte le erbe un fascio…). Certo, l'approvvigionamento diversificato Usa dagli impianti nigeriani offshore sta continuando a crescere, ed espellere fuori campo multinazionali non a stelle e strisce (sebbene le multinazionali si definiscano proprio per non avere bandiera, quando il gioco si fa duro, le appartenenze delle élite imprenditoriali a formazioni sovrane conta sempre, eccome), come Shell e Eni, farebbe comodo per soppiantarle con altre più allineate agli interessi ultra privati e ultra ristretti a Washigton.
Il colosso nigeriano, di cui addirittura si discute il probabile ingresso nel Consiglio di sicurezza a rappresentare l'Africa come paese più popoloso (concorrente alternativo, il Sudafrica del dopo Mandela), ritorna episodicamente agli onori di una cronaca immemore a singhiozzo, che anni addietro riferiva degli scontri interetnici e inter-religiosi al nord, che celava come al solito discriminazioni socio-economiche e politiche camuffate da un lessico attuale dei conflitti di potere. La situazione non si è affatto pacificata dopo che i media sono stati attirati da scenari più necrosi di quello, ma noi non sapremo nulla, a meno che qualche imprenditore della violenza sappia coniugare il controterrore della disperazione calcolata verso una ipotetica scalata alla vetta del potere, con una abilità seduttiva dei media, attirati con l'innalzamento di piramidi sacrificali in cui a pagare il costo sono sempre masse inermi e innocenti, alla mercé dei leader di ogni colore, ernia, fede e reddito, famelico e indifferente al destino degli oppressi di ogni latitudine.

Salvo Vaccaro





















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