Umanità Nova, numero 33 del 24 ottobre 2004, Anno 84
La foto di una donna afgana mentre, col burka indosso, mette una scheda nell'urna elettorale ha fatto il giro del mondo.
Ci avevano raccontato che la guerra in Afganistan avrebbe liberato le
donne; tre anni dopo di fronte ad un diritto formale di voto,
c'è la persistenza dell'oppressione religiosa sessista,
un'infinita occupazione militare Usa-Nato, l'invariato ricorso alle
torture nelle carceri, l'imperversare dei signori della guerra e del
narcotraffico.
Le immagini, si sa, sono per natura ingannevoli, ma talvolta svelano le contraddizioni che si vorrebbero nascondere.
Cosa sia stata in passato la guerra lo sappiamo bene, anche se certo
senza la drammatica consapevolezza dei nostri genitori o dei nostri
nonni; cosa sia oggi il militarismo, in rapporto con quanto è
stato nel secolo scorso, appare da un lato come qualcosa di molto
diverso - basti pensare agli immani assalti alla baionetta del primo
conflitto mondiale - ma allo stesso tempo ne conserva immutati ed
accentua aspetti in apparenza anacronistici.
"Una modernità che riproduce gli orrori delle stragi primeve -
come ha amaramente scritto un giornalista come Giorgio Bocca certo non
imputabile di estremismo - Carri armati, telecomunicazioni, aerei,
truppe speciali e nel cortile un macello che fa impallidire i saccheggi
delle vecchie guerre. Il prezzo richiesto dai soldati, la
libertà di uccidere, stuprare, incendiare, che è il
nostro piacere supremo".
Questa è la realtà, la nostra realtà di una
società in guerra che non vuole sapere di essere in guerra e
tanto meno è disposta ad ammettere di stare esportando dolore e
sopraffazione.
Eppure in Iraq e in Afganistan ci sono truppe e mezzi militari col
tricolore, co-responsabili di aggressioni e occupazioni unilaterali;
così come solo pochi anni fa aerei con la coccarda tricolore
hanno sganciato bombe su obiettivi civili e militari nei Balcani, dove
ancora permangono contingenti "di pace" italiani. Analogamente, una
decina di anni fa militari italiani erano parte dell'indecente
operazione Restore Hope in Somalia.
Tempi ed aree geografiche diverse, eppure con uno scenario molto simile
in cui la pacificazione e l'instaurazione della democrazia significano
violenze contro i civili ed interessi economici, torture ed affarismo,
repressioni e ruberie legalizzate.
Mentre la cosiddetta informazione, puntuale nell'amplificare la
retorica della lotta al terrorismo, socchiude sistematicamente gli
occhi davanti al terrore statale: i diritti umani, la civiltà,
le tanto declamate garanzie democratiche perdono ogni importanza
davanti al monopolio della violenza esercitata del potere costituito.
Ma se tutto questo è possibile, è anche per
responsabilità di settori politici e sociali che, almeno per
rispetto delle proprie origini storiche, dovrebbero insorgere contro la
"normalità" dello stato di guerra. Emblematico a riguardo
l'atteggiamento dei principali sindacati italiani - Cgil, Cisl, Uil -
che, nonostante milioni di lavoratori iscritti e milioni di persone
nelle piazze a manifestare per la pace, non hanno trovato la
volontà ed il coraggio politico di promuovere uno sciopero
generale che mettesse alle corde il governo della guerra, lo stesso
governo che finanzia le imprese militari e nuovi armamenti tagliando
spese sociali, pensioni, stipendi.
Responsabilità non meno gravi quelle dei partiti del
centro-sinistra, in difficoltà persino a richiedere il ritiro
incondizionato dei contingenti militari italiani dai teatri di guerra,
quegli stessi partiti che vorrebbe candidarsi quale alternativa
all'attuale maggioranza governativa.
Da qui la necessità di sviluppare il nostro impegno
antimilitarista, non tanto e non solo per ragioni etiche, ma
perché la questione della guerra è oggettivamente la
questione sociale su cui, da una parte si vanno definendo nuovi assetti
di dominio e dall'altra s'intrecciano pratiche d'opposizione e
prospettive di liberazione.
Pratiche e prospettive ben presenti nelle nostre prossime scadenze: 4
novembre ovunque per non dimenticare la prima strage mondiale, 13
novembre a Mestre contro la Nato e il militarismo.
Sandra K.