Umanità Nova, numero 34 del 31 ottobre 2004, Anno 84
Il ruolo dei militari nella gestione della politica e dell'economia,
sul sempre più labile confine tra guerra e pace, in questi anni
ha visto veloci quanto sostanziali modificazioni, a partire dalla
vertiginosa crescita d'importanza delle "nuove" compagnie militari
private, ossia di quelle agenzie paramilitari che su appalto di gruppi
economici e di governi dispiegano in zone di guerra decine di migliaia
di cosiddetti contractors.
Tali moderni mercenari sono solo alcuni dei protagonisti dei piani
di ricolonizzazione, a fianco delle imprese multinazionali, dei
cartelli finanziari, delle istituzioni globali come il FMI e la Banca
Mondiale, delle grandi agenzie umanitarie, attori seppure a diversi
livelli e con diverse responsabilità nei processi di
"pacificazione" e ricostruzione.
Quanto stiamo assistendo, platealmente in Afganistan e Iraq, è
l'occupazione di natura imperialista e il dominio di un paese
attraverso soggetti diversificati che si passano via via il testimone:
gli eserciti per conquistare e controllare le aree strategiche; le
società militari e di sicurezza private per la vigilanza delle
aree urbane e produttive, nonché la gestione delle carceri; le
Ong e le istituzioni umanitarie, comprese quelle targate ONU, per il
ricatto assistenziale legato alla distribuzione dei beni primari,
sovente in connessione con gli apparati militari; le multinazionali e i
gruppi finanziari per il saccheggio e lo sfruttamento economico; i
governi subalterni alle potenze vincitrici per il controllo politico e
l'imposizione dell'ideologia democratica.
In questa complessa e articolata staffetta, sia in Afganistan che Iraq
e prima ancora nei Balcani, s'inseriscono gli apparati militari e
"civili" dell'Unione Europea e della NATO, compresi quelli italiani.
Così, ad esempio, in Iraq vediamo l'Italia presente
contemporaneamente con truppe specializzate integrate con le forze
anglo-statunitensi d'occupazione, con vigilantes privati, con
un'organizzazione filo-governativa e legata a doppio filo all'esercito
come la Croce Rossa, con Ong come Intersos collegata anch'essa ad
ambienti militari, per non parlare delle numerose imprese pubbliche (in
prima fila l'ENI) e private coinvolte nel business della ricostruzione.
Inoltre, si può presumere che, dopo la decisione della NATO di
istituire a Baghdad un centro di addestramento per le forze di
sicurezza nazionali irachene, esperti militari italiani parteciperanno
a tale progetto.
In Afganistan, invece, i militari italiani dopo aver partecipato con i
reparti Usa ad Enduring Freedom, fanno parte del contingente ISAF a
guida NATO ed anche a Kabul si occupano, con personale dei Carabinieri,
di addestrare i reparti governativi di polizia.
Tali impegni, sempre più estesi, lontani e gravosi, delle forze
armate italiane stanno coincidendo non senza problemi con la
ristrutturazione e la professionalizzazione del servizio militare.
A confermare tali difficoltà ci sono le ricorrenti allarmate dichiarazioni dei vertici militari che denunciano un insufficiente numero di domande d'arruolamento; ma da una fonte certo non sospetta di disfattismo quale Sergio Dini, presidente dell'Associazione nazionale magistrati militari, abbiamo anche appreso che il reato di diserzione permane ad "alta frequenza" anche tra i volontari, che molti di questi abbandonano prima dello scadere della ferma il mestiere delle armi e che, dopo il boom del 2001, l'arruolamento femminile ha subito un calo verticale (Il Mattino di Padova, 17.8.04).
Evidentemente i 5000 euro mensili per i militari operanti in Iraq, hanno un appeal limitato davanti alla prospettiva di ritornare in una bara e la seppur intensa campagna propagandistica del Ministero della Difesa, con i suoi grotteschi RAP-Camp per avvicinare i giovani al mestiere di soldato, non funziona così tanto bene: la guerra quando comincia a contemplare la possibilità che, oltre ad uccidere, si può anche crepare diventa un'avventura poco allettante.
Peraltro il caso dei militari morti in conseguenza dell'esposizione all'uranio impoverito nel corso dei vari interventi in Somalia, Iraq e Balcani, e già dimenticati dalla loro patria, non contribuisce certo molto all'immagine delle forze armate.
Inoltre, tra la propaganda bellicista e vincente degli spot e dei manifesti e la cruda realtà delle caserme fatta di autoritarismo, nonnismo, maschilismo, esaltazione rambesca, vi è un evidente contrasto che inevitabilmente finisce per far pentire delle proprie scelte molti incauti aspiranti guerrieri.
Per questo l'opposizione alla guerra, e in particolare quella antimilitarista, ha la possibilità non solo di mettere un allegorico granello di sabbia nei meccanismi della guerra, ma di collegarsi sul piano sociale ai settori colpiti direttamente dalle politiche interventiste e di riarmo del governo e persino alla crisi interna attraversata dal militarismo italiano.
La prossima manifestazione di Mestre intende andare proprio in questa direzione, transitando in un territorio quotidianamente caratterizzato da insediamenti industriali colpiti da licenziamenti e lavoro precario, dall'incombente minaccia dal polo chimico, dal potere delle banche del "ricco" Nordest e dalle truppe lagunari già operanti in Iraq.
Uncle Fester