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Umanità Nova, numero 34 del 31 ottobre 2004, Anno 84

Pensioni e Tfr. Tra incudine e martello
I lavoratori? Liberi di scegliere la corda che li impiccherà




Le note che seguono sono il prodotto di una mia diretta esperienza sul campo. Ho, infatti, parlato con molti lavoratori interessati alla questione e partecipato a diverse assemblee che trattavano di pensioni e Tfr. Non hanno, di conseguenza, alcuna pretesa di completezza ma vogliono individuare un'ipotesi di lavoro tutta da sviluppare.

Come, correttamente, mi faceva rilevare qualche settimana addietro un compagno i lavoratori affrontano in questo periodo due questioni fra di loro intrecciate ma di diversa rilevanza e che vanno affrontate separatamente.
Da una parte, e la richiesta di informazioni nel merito è notevolissima, molte lavoratrici e lavoratori temono che, sulla base della riforma delle pensioni approvata quest'estate dal governo, il loro trattamento di fine rapporto, la vecchia buonuscita, verrà loro sfilato e trasferito ai fondi pensione sulla base del meccanismo del silenzio assenso che, in buona sostanza, significa che se non si rifiuta esplicitamente il trasferimento questo avverrà automaticamente.
Sull'argomento, per la verità, circolano leggende metropolitane, per molti versi, pericolose. In realtà, se è stata approvata la legge, mancando i conseguenti regolamenti attuativi con l'effetto che le lettere di rifiuto del trasferimento del Tfr ai fondi pensione messe in giro da diversi soggetti sindacali sono, a tutti gli effetti, dichiarazioni politiche prive di effetti operativi. C'è, va detto, il rischio che i lavoratori che le hanno compilate e spedite pensino di essersi tutelati rispetto allo scippo annunciato mentre è necessario, dal punto di vista tecnico, che le lettere siano preparate tenendo conto dei regolamenti attuativi.
Oggi è molto più utile svolgere un'attività di informazione sulla riforma delle pensioni e del Tfr e preparare una campagna di tutela del proprio Tfr da avviare praticamente appena i famigerati regolamenti attuativi saranno pronti. 

Sebbene, ed è sin troppo evidente, la resistenza a cedere il proprio Tfr sia essenzialmente derivante da un calcolo personale, e non vi sia, da parte mia, alcun giudizio morale su questo carattere della dinamica in corso, ha un'implicazione politica generale evidente. Non vi è alcuna fiducia né nel governo né nei fondi pensioni e i lavoratori vorrebbero, se potessero, recuperare, se possibile, il proprio Tfr.
La questione più importante anche se più difficile da affrontare è, evidentemente, la riforma, meglio sarebbe definirla, come altre analoghe operazioni, controriforma.
Ritengo che, a questo proposito, sia bene porre in relazione la Riforma Berlusconi, orrida, con la Riforma Dini che, nel 1995, modificò radicalmente la situazione e definì lo scenario che oggi ci troviamo ad affrontare.

Come i nostri lettori ricorderanno, la riforma Dini fu la soluzione che il governo di sinistra, con l'accordo dei sindacati concertativi, trovò per spezzare il movimento di opposizione al taglio delle pensioni e consisteva nel dividere i lavoratori in tre gruppi:

- quelli che avevano, al 1995, 18 anni di contributi e che hanno mantenuto il vecchio sistema di calcolo delle pensioni (il retributivo decisamente più conveniente) pur essendo stati toccati dal prolungamento dell'età lavorativa;

- quelli che non avevano 18 anni di contribuzione e che sono passati al sistema misto (retributivo sino al 1995 e contributivo in seguito), sino al 1995 il retributivo, dopo il 1995 il contributivo (decisamente peggiore) con l'effetto di perdere una rilevante quota della pensione tanto maggiore quanto minore è la parte definita con il retributivo.

- quelli entrati poi nel gioco e passati in blocco al contributivo e condannati a maturare una pensione che è, all'incirca, la metà della pensione che avrebbero avuto con il vecchio sistema.

Il trucco c'è e si vede, si colpivano di meno i più anziani e più immediatamente interessati alla pensione e di più i più giovani, a loro volta divisi in due gruppi e, per quanto riguarda quelli con il sistema misto in diciassette sottogruppi, più lontani dal pensionamento. 

Naturalmente, dal punto di vista dello stato e del padronato, la riforma Dini aveva un costo visto che la riduzione della spesa previdenziale era scaglionata nel tempo e che, soprattutto nei primi anni di operatività, la fuga, assolutamente ovvia, verso la pensione di chi poteva farlo determinò persino un aumento dei costi immediati della previdenza.

Il fatto è che gli anni passano e che i nodi vengono al pettine. I lavoratori collocati nel sistema misto e quelli che hanno solo il contributivo si avvicinano alla pensione e il secondo gruppo diventa più consistente ogni anno che passa. Inoltre, grazie al famigerato Pacchetto Treu (peggiorato dalla legge Biagi Maroni) una massa crescente di lavoratori atipici non ha una situazione previdenziale tale da garantire una pensione accettabile.

E i sindacati concertativi, oltre ai padroni, si comportano come medici che simulano di curare i mali che hanno contribuito a diffondere. Se la pensione, in tendenza, non c'è più in misura tale da garantire la sopravvivenza, diventa necessario ai lavoratori comprarsi una pensione integrativa e, in questo modo, si crea uno straordinario mercato, quel mercato dei fondi pensione che già caratterizza altre economie capitalistiche.

Ai lavoratori vengono offerte due scelte e, fatta la prima, altre due:

- accettare la pensione sociale o farsi una pensione integrativa pagandola con un reddito attuale sempre più modesto

- aderire a fondi aperti gestiti da imprese private o a fondi chiusi gestiti da padronato e sindacati a livello di categoria.

Ed è proprio su questo punto che si determina lo scontro fra governo e sindacati istituzionali. Il governo,, infatti, vorrebbe puntare sui fondi aperti gestiti dai propri amici, i sindacati vogliono i fondi chiusi che ne stanno facendo i gestori di una quota rilevante del capitale nazionale.

È interessante notare come CGIL-CISL-UIL utilizzino, per realizzare i propri obiettivi, proprio la mobilitazione dei lavoratori contro il taglio delle pensioni e presentino i fondi chiusi come un compromesso favorevole ai lavoratori stessi. Il governo e il padronato, nonostante roboanti dichiarazioni antisindacali, sinora hanno fatto robuste concessioni ai sindacati concertativi e non è necessaria molta fantasia sociologica per comprendere le ragioni di questa cedevolezza.
Personalmente sto seguendo il lancio sul mercato del Fondo Espero per i lavoratori della scuola ed è interessante notare alcuni aspetti della campagna di promozione sindacale. 

Mi limiterò a segnalarne le modalità ed alcune possibili obiezioni.

I sindacalisti pongono l'accento sul fatto che non sarebbero promotori finanziari e che si limitano ad indicare una possibilità che è offerta ai lavoratori. È, invece evidente, che il Fondo Espero, che riguarda, in tendenza, quasi un milione di lavoratori, è gestito da loro e dal governo e ne farà una potenza economica.
L'affermazione che i lavoratori sceglieranno liberamente se aderire o meno rimanda all'astratta libertà di svolgere un lavoro salariato o di essere emarginati o, se vogliamo un paragone più stringente, di fare lavoro straordinario a fronte di un salario in diminuzione. È, infatti, evidente che la libertà di scelta può valere solo per i lavoratori con maggiore anzianità ma non esiste per quelli che hanno, in tendenza, una pensione intorno al 50% dell'ultima retribuzione.
Si afferma che il Fondo Espero è senza fini di lucro e che sarà gestito democraticamente visto che i soci eleggeranno il direttivo del fondo stesso. Sul primo punto, non è necessario un genio dell'economia per capire che gli operatori finanziari che gestiranno gli investimenti non sono certo degli asceti, sul secondo, possiamo immaginare i meccanismi che verranno messi in moto per garantire il controllo dell'apparato sindacale sul fondo stesso.

L'accento, a mio avviso, va posto su alcune ulteriori questioni:

- i fondi già esistenti in altre categorie di lavoratori hanno, negli ultimi cinque anni, perso rispetto a quanto avrebbe garantito il vecchio sistema;

- se ci si vuole garantire una pensione decente sarà necessario versare al fondo pensioni cifre maggiori rispetto alle attuali (1% della retribuzione e tutto il tfr in maturazione dalla riforma in poi);

- comunque, con il capitalismo dei fondi pensione, la pensione stessa viene, in misura crescente, legata all'andamento del mercato. Anche una politica prudente di investimento - non siamo negli USA, suvvia! - non può sfuggire a questa realtà.

È evidente che il lavoratore, come individuo singolo, tenderà a scegliere se aderire o meno ai fondi pensione sulla base di calcoli, ovviamente, individuali ma non ritengo sia questo il punto. La questione è generale e come tale va assunta.

Si tratta, quindi, nel prossimo periodo di costruire iniziative sia di informazione che di lotta che leghino la difesa delle pensioni a quella del salario diretto e del welfare. È una sfida aperta che sarà necessario affrontare con determinazione.

Cosimo Scarinzi
























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