Umanità Nova, numero 35 del 7 novembre 2004, Anno 84
Strano destino, quello degli abitanti della striscia di Gaza: non hanno
mai avuto la ventura di autogovernarsi. Prima gli inglesi ai tempi del
Mandato britannico, poi gli egiziani, poi gli israeliani dopo gli
accordi di Camp David nel 1977. E il milione e passa di arabi
palestinesi? costretti a stare in una striscia larga sei chilometri e
lunga qualche decina, circondati da un muro e filo spinato già
da anni non sospetti (in cui cioè il Muro in Cisgiordania era
uno dei tanti piani di annessione rinchiuso in cassetti del governo
israeliano), con un mare alle spalle cui non hanno accesso, con i
valichi per uscire fuori di casa, per andare al lavoro o per farsi
curare, dove l'umiliazione quotidiana è ordinaria vita, dove il
tempo si sospende in maniera infinita, dove lo spazio ristretto si
prolunga in abissi insormontabili. Dove persino il confine con una
nazione straniera (l'Egitto) è un finto confine, perché
oltre il filo spinato c'è la strada di sicurezza israeliana in
cui possono scorazzare solo le jeep e i tank con la stella di Davide.
Lo sgombero ebraico annunciato da Sharon e passato a fatica dal Parlamento israeliano viene salutato all'estero come una opportuna e felice mossa politica, analoga a quella che fece Barak quando nel 1990 lasciò la fascia costiera del Libano del sud, occupato sin dal 1982 - i tempi di Sabra e Chatila, tanto cari allo Sharon Ministro della difesa e responsabile politico del massacro, che allora fu costretto alle dimissioni e che solo una riforma peggiorativa della legge belga sulla competenza universale dei tribunali in tema di gravissime violazioni dei diritti umani ha esentato dal giusto processo.
Tuttavia le somiglianze sono illusorie.
Innanzitutto il Libano era militarmente occupato, ma senza colonie di civili insediati, quindi solo per esigenze tattiche difensive: spostare sempre più oltre il confine di sicurezza fisica della popolazione israeliana sottostante alle colline libanesi, da cui partivano gli ordigni degli hetzbollah. Gaza invece è una striscia popolata da qualche migliaio di ebrei in amene colonie, servite da strade private ed esclusive, tutelate da vigilantes e dal più potente esercito dell'area, che innaffiano i loro prati all'inglese con l'acqua prelevata dall'acquifero costiero sotto i piedi dei palestinesi, costretti ad approvvigionarsi dai pozzi sequestrati dai coloni. Addirittura l'acqua sotto Gaza è drenata nel vicino deserto del Negev, in territorio israeliano, in cui sorgono le serre ultratecnologiche in cui si provano coltivazioni alimentari ogm (tipo i pomodorini di Pachino, per intenderci), e in cui risiede il ranch del più grande imprenditore agricolo d'Israele, tale Sharon…
Il quale non ha mai parlato di ritiro, bensì di disimpegno, il che tradotto dal politichese vuol dire: un anno di tempo per distruggere l'indifendibile, ossia lasciare gli insediamenti coloniali diroccati, convincere i più riottosi a suon di decine di migliaia di dollari a testa - magari versati dal contribuente americano, abituato da decenni a pagare per gli ebrei fidejussioni bancarie per acquisti di armamenti - senza rinunciare tuttavia a poter penetrare quando e come si vuole per distruggere le case dei palestinesi. Del resto, questo scenario non risale alla Road Map, bensì a Oslo, complici pertanto i maggiorenti palestinesi smaniosi di realizzare a qualunque prezzo uno stato per sé, sia pure spezzato tra Gaza e la West Bank dove è collocata la capitale dell'Autorità palestinese (l'aggettivo Nazionale non è mai scritto negli accordi di Oslo…).
Fare di Gaza una prigione a cielo aperto, abbandonarla a se stessa, ossia agli accordi tra Hamas e quel che resta dell'élite laica e nazionalista dell'Olp del moribondo Arafat, significa per Israele non solo levarsi una palla dal piede agli occhi di una opinione pubblica mondiale non certo benigna nei suoi confronti, quanto e soprattutto poter cominciare in modo formale quell'annessione della Cisgiordania tuttora militarmente e amministrativamente occupata dalla guerra dei sei giorni (giugno 1967). Gli insediamenti coloniali sparsi a macchia di leopardo nella West Bank, già collegati da bypass road esclusivamente riservate agli ebrei, divengono così la posta di scambio per il disimpegno da Gaza. Il tracciato del Muro segregazionista e l'annessione delle colonie in cambio di Gaza saranno l'effetto formale, magari sancito dalle istituzioni internazionali convinte della "buona fede" di Sharon, della fine della questione palestinese, prima che essa possa diventare ingovernabile sotto forma di una questione ebraica, ossia dello squilibrio demografico in favore degli arabi dentro i confini di Eretz Israel, un grande Israele che si estende dal Mediterraneo al fiume Giordano - ma che taluni fondamentalisti ebrei vorrebbero identificare alle due strisce azzurre della bandiera nazionale israeliana, il Tigri e il canale di Suez, tra cui campeggia la stella di David a significare la terra ancestrale degli ebrei ripulita dall'altrettanto indigena popolazione araba.
Se il progetto in Cisgiordania è leggibile come annessione e segregazione degna di un novello apartheid del XXI secolo, il destino dei coloni estremisti a Gaza è affidato alle peripezie dell'anno di tempo che Sharon si è dato per traslocarli altrove, ossia proprio negli insediamenti attorno Gerusalemme (araba) e le altre città potenzialmente palestinesi, a far tramontare definitivamente il sogno di Arafat, in piena coincidenza con il suo tramonto fisico e politico.
Massimo Tessitore