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Umanità Nova, numero 36 del 14 novembre 2004, Anno 84

Pattume nazionalista
Retorica bipartisan dell'italietta guerrafondaia




La prima guerra mondiale, per il cui esito "glorioso" ancora oggi si dà fiato alle trombe della retorica nazionalistica e dell'enfasi guerriera, fu solo un mostruoso, immane macello. I morti in tutta Europa furono decine di milioni, e i soldati italiani, in gran parte contadini e proletari analfabeti, furono, secondo le cifre della "vittoria", seicentomila. Quasi 500 morti al giorno per ognuno dei 1250 giorni di guerra, e tutto lascia pensare che siano stati infinitamente di più. Se si pensa a come l'odierna retorica della pace guerreggiata e della guerra umanitaria si è impadronita dei 19 "eroi di Nassirya", cosa di più osceno ancora avrebbero potuto scrivere gli squallidi tromboni delle "radiose giornate"? Sia come sia, le città dello stivale pullulano di vie Vittorio Veneto, 4 Novembre, Armando Diaz, Trento e Trieste, Bainsizza, Piave, Caduti per la Patria e via andare. Se la pratica dei compagni piemontesi di cambiare nome a tali strade con scritte antimilitariste fosse generalizzata, di lavoro da fare ce ne sarebbe davvero per tutti. Nella più grande metropoli come nella più sperduta borgata, infatti, un viale a tre corsie o un vicolo che ricordino la guerra non mancano mai, e un omaggio alla patria e alle sue grandezze non se lo è dimenticato nessuno. Per tacere poi dei monumenti ai morti ammazzati, tutti nel più lugubre stile cimiteriale, che deturpano, quali più quali meno, le meravigliose piazze rinascimentali di mezz'Italia.

Ancora oggi, nella giornata del 4 novembre, si continua a celebrare quell'infausto conflitto, e tutte le autorità, dalle massime cariche istituzionali ai più sfigati capoccia di paese, salgono tronfi e con il petto gonfio della stessa virile commozione, su palchi improvvisati e pavesati a festa, ora per concionare piccole folle di decrepiti combattenti e reduci, ora per martoriare incolpevoli scolaresche elementari. Comunque sia, un copione grottesco e immutabile nel tempo, se non fosse che, in omaggio allo spirito dei tempi, oggi non si "festeggia" più solamente la vittoria sulle truppe di Cecco Beppe ma anche la cosiddetta unità nazionale. E solo i leghisti più intossicati dal viagra secessionista fingono di sottrarsi a questo rituale unitario, avendo rimosso, con tutta evidenza, che i loro bifolchi nonni padani caddero a grappoli nelle trincee del Carso a fianco dei carusi siciliani e dei cafoni pugliesi: ugualmente sfruttati nella vita, ugualmente sfruttati nella morte. E non avendo mai capito che erano stati mandati tutti a farsi sbudellare "unitariamente", da una cricca patriottarda e guerrafondaia animata dai monarchici piemontesi, avvelenata dai futuristi milanesi e finanziata dagli industriali lombardi e delle città padane.

Come dicevamo all'inizio, la prima guerra mondiale fu un immane macello, per compiere il quale si sperimentarono quegli strumenti di morte e distruzione indiscriminata destinati poi a diventare il suggello dei conflitti successivi: la barbarie della seconda guerra mondiale, con i suoi oltre sessanta milioni di morti, ebbe origine nei bombardamenti aerei e nelle bombe all'iprite della prima, il napalm del Vietnam e le attuali armi di distruzione di massa non sono che il perfezionamento tecnologico dei gas letali usati dalle grandi democrazie europee sui campi di battaglia tedeschi e francesi, austriaci e italiani, russi e polacchi. Solo il canale della Manica salvò le popolazioni britanniche da quell'oltraggio. Non c'è che dire, una grande prova della superiorità di quella civiltà europea che tanto ci tiene a ostentare le sue radici cristiane!

La guerra è l'indicibile, le sue conseguenze sono un qualcosa che solo l'occhio può comprendere e raccontare, perché non c'è parola che potrebbe descriverne gli effetti con la stessa crudezza. Forte di questa elementare verità, l'anarchico e antimilitarista tedesco Ernst Friedrich pubblicò, nel 1924, un album fotografico intitolato Krieg dem Kriege! (oggi ristampato da Mondadori con il titolo Guerra alla guerra), nelle cui 180 immagini, tremende e impressionanti, era compendiata la barbarie disumana della guerra e delle sue conseguenze tanto sulla società come sui singoli individui. Nella Germania sconvolta dalle recenti distruzioni, e ancora inconsapevole del proprio drammatico futuro, quel libro ebbe un grande successo tanto da vedere in pochi anni 10 successive edizioni. E per un certo tempo sembrò funzionare come un prezioso vaccino. Ma evidentemente il virus della violenza del potere abbatté tutte le difese di un organismo sociale stremato che chiedeva solo pace, e quella oscena miscela di nazionalismo, autoritarismo, violenza, sopraffazione, brigantaggio, che caratterizza la natura degli stati, di tutti gli stati, spinse i popoli nell'avventura della seconda guerra mondiale. E in quelle, successive, che hanno caratterizzato la storia di questi ultimi decenni.

La guerra, dunque! Un "incidente" della storia tanto frequente quanto micidiale, che pensavamo dovesse essere bandito dalle cosiddette coscienze democratiche. In nome, perlomeno, di quei brandelli di solidarietà internazionalista e popolare ai quali mostrano di aggrapparsi, in mancanza d'altro, le cattive coscienze dei rivoluzionari d'antan. Ma così non è, a quanto pare, e a ricordarci che l'opposizione alla guerra è la solita manifestazione di quell'estremismo bollato, dagli intelligentissimi marxisti puri ed ortodossi, come malattia infantile del comunismo, ci pensano le "teste pensanti" della nostra bella sinistra nazional popolare, impegnate a dimostrarci, con D'Alema in testa, che se quel pennellone di Kerry ha perso contro Bush, ciò è dovuto alla sua incapacità di smarcarsi dal radicale movimento contro la guerra statunitense ed internazionale. Che è come dire che se Bush è ancora presidente degli Stati Uniti, dobbiamo ringraziare anche i vari Casarini, D'Erme e Agnoletto. 

"Per essere credibile la sinistra deve misurarsi con l'uso legittimo della forza" ha sentenziato lo skipper di Gallipoli "perché altrimenti lasciamo alla destra la possibilità di cavalcare la paura". E poi, dimostrando di non aver dimenticato le proprie origini staliniste, ha rincarato la dose con il raffinato acume che lo distingue, pontificando su "un radicalismo che una volta avremmo definito piccolo borghese". Che è come dire che non ci si può opporre alla guerra, perché ogni guerra è legittima quando è legittimo il potere che la dichiara, e chi vi si oppone non lo fa in nome di un dovere morale, ma per dare sfogo al proprio snobismo radical-chic. Del resto cos'altro aspettarsi da questo velleitario lanciatore, negli anni della contestazione, di immaginarie bottigliette molotov, e oggi piamente devoto all'aquila argentata regalatagli dal generale americano Wesley Clark ai tempi della condivisa guerra in Kosovo? Se questi sono gli uomini che devono "salvare" il paese dalla deriva berlusconiana, non è che ci toccherà di augurare lunga vita all'ometto con la bandana?

Massimo Ortalli


























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