Umanità Nova, numero 36 del 14 novembre 2004, Anno 84
Non credo sia casuale che la fine, politica oltre che fisica, di Arafat
stia avvenendo a pochi giorni dalla rielezione di Bush e dal voto del
parlamento israeliano a favore dell'autonomia della striscia di Gaza.
La certezza di un altro mandato repubblicano alla Casa Bianca ed il
conseguente rafforzamento della politica segregazionista di Sharon,
sono stati sicuramente gli elementi di accelerazione della crisi che
già da tempo agitava i massimi vertici dell'ANP, stretti tra la
crescita di influenza di Hamas, e le volontà liquidatorie
dell'idea stessa di stato palestinese proprie della dirigenza
israeliana. Le voci contraddittorie che continuamente si rincorrono
intorno alle vere motivazioni dello stato di salute del vecchio leader
- dal tumore alla leucemia fino addirittura all'ipotesi dell'
avvelenamento - insieme alle accuse di cospirazione rivolte dalla
moglie di Arafat ai suoi successori, sono esse stesse un chiaro sintomo
di questo stato di crisi, da cui ovviamente il governo di Tel Aviv
cercherà di ottenere il massimo vantaggio, comprimendo
ulteriormente i diritti dei palestinesi e le loro giuste aspirazioni.
Che la figura di Arafat fosse diventata ingombrante per gran parte dei suoi appare evidente dalla continua spinta di Sharon sugli organismi di governo palestinesi, affinché determinate figure - come Abu Mazen, ad esempio - assumessero ruoli e compiti determinanti. Relegato al ruolo di bandiera della causa palestinese, confinato e tenuto sotto assedio a Ramallah, Arafat ha di fatto svolto, negli ultimi tempi, un'attività sempre meno incisiva, mentre hanno ripreso ad agitarsi le diverse anime del composito mondo della resistenza palestinese, variamente legate agli interessi dei principali paesi arabi dell'area, Egitto, Siria e Giordania. Quegli interessi che Arafat aveva saputo contenere scalzando le precedenti leadership palestinesi ed affermando una concezione nazionale pienamente autonomista, slegata dai giochi che i vari regimi dell'area conducevano anche sulla pelle dei palestinesi stessi. E non è forse un caso che, a sentire la testimonianza della moglie, dal letto dell'ospedale militare di Parigi Arafat abbia indicato in Kaddumi il suo possibile erede; quel Kaddumi che ha sempre rifiutato i falliti accordi di Oslo e che è rimasto in esilio a Tunisi, circondato da un alone di intransigenza.
Controllata e governata dai medici militari francesi - che pongono di fatto Parigi in un ruolo di grande responsabilità sull'evoluzione della leadership palestinese e quindi sui prossimi scenari mediorientali – la vicenda umana di Arafat va a concludersi in modo paradossale: lontano dalla terra per la quale tanto ha lottato, lontano dai suoi compagni di lotta, vicino ad una moglie che non viveva da anni con lui e che oggi ne raccoglie - o dice di farlo - pareri ed indicazioni.
Eppure di Arafat rimarrà nella storia la completa identificazione per più di quarant'anni con la Palestina, la sua resistenza, la sua lotta per il riconoscimento dell'indipendenza nazionale. Molti in questi giorni si sono esercitati nell'elencarne meriti ed errori, valutandone l'azione per lo più sotto l'ottica statalista, il conseguimento cioè dello Stato palestinese. Dal nostro punto di vista credo che sebbene vada evidenziata la sua statura di leader nazionalista, divenuto nel tempo, un simbolo della lotta di un popolo, vada anche registrata tutta la debolezza di una politica incentrata esclusivamente sul riconoscimento statuale della propria nazionalità, passo obbligato, si dirà, nei confronti del sionismo e della sua volontà di sopraffazione, ma incapace di accumulare forza rispetto nemici determinati e ben organizzati.
Mantenendo inalterata la struttura sociale tradizionale palestinese, per quanto l'occupazione militare l'abbia consentito, le classi dirigenti hanno mancato quell'elemento che da propulsione a qualsiasi iniziativa: la risoluzione della questione sociale in chiave di giustizia ed eguaglianza che avrebbe sicuramente conquistato adepti anche nel campo israeliano, contribuendo a corrodere all'interno il movimento sionista. Ma con i se non si fa la storia.
Quello che è certo è che il nazionalismo laico tipico della generazione degli Arafat è stato di fatto sconfitto da una strategia che ha preferito vedere l'emergere del fondamentalismo religioso con tutti i suoi annessi e connessi. È altrettanto certo che ora che Arafat sta scomparendo anche fisicamente, si dissolve anche l'alibi per tutti i governanti israeliani e statunitensi di individuare in lui il responsabile della "pace mancata". Che tipo di pace vorranno e potranno imporre alla martoriata popolazione palestinese?
M. V.