Umanità Nova, numero 36 del 14 novembre 2004, Anno 84
Tempo fa, quando ancora andavo al cinema con una certa frequenza,
ricordo di aver visto un film bellissimo e angosciante (mi pare si
chiamasse "Moon light" e che il regista fosse Jerzy Smolinowsky). Un
gruppo di muratori polacchi veniva ingaggiato da un imprenditore
inglese senza scrupoli per farsi letteralmente rifare la villetta in un
quartiere residenziale di Londra. I quattro morti di fame venivano
imbarcati in un container, sbarcati clandestinamente a Londra e chiusi
in questa casa per lavorare giorno e notte, per un mese intero, in
condizione di semischiavitù. Senza conoscere una parola
d'inglese, con pochi soldi in tasca per fare la spesa, i vicini
sospettosi e infastiditi, la paura di essere scoperti, il terrore di
essere cacciati senza la paga agognata, tutto questo messo insieme
trasformava presto il loro soggiorno in una sorta di incubo irreale
protratto per intere settimane. Questo film mi è ritornato in
mente leggendo il materiale sulla direttiva Bolkestein.
Frits Bolkestein ha un curriculum di tutto rispetto, che non ammette equivoci. Liberale, olandese, Commissario Europeo al Mercato Interno, alla Tassazione e all'Unione Doganale nell'uscente Commissione Prodi, ha seguito un percorso professionale coerente. Dirigente della Shell, Chairman per il suo paese del Consiglio Atlantico, Ministro Olandese del Commercio con l'estero e poi della Difesa. Uno che ha sempre saputo da che parte stare. Difatti la direttiva che prende il suo nome è stata elaborata con la consultazione di 10.000 imprese europee, senza però mai aver sentito alcuna organizzazione sindacale, ambientale o impegnata nel sociale. Il punto di vista che emerge è chiaramente di parte e la direttiva Bolkestein mira ad applicare all'Europa intera i principi del Wto e del Gats, con alcune importanti estensioni in senso ancora più liberista e competitivo. Si tratta di un ciclone che sta per abbattersi sullo statuto sociale europeo, sulla sua costituzione materiale, sulle condizioni di lavoro di milioni di persone. Vale la pena saperne di più e farlo al più presto possibile.
La direttiva Bolkestein è stata proposta il 13 gennaio 2004, non a caso pochi mesi prima dell'allargamento dell'Unione a 10 nuovi strati membri, con condizioni sociali, sindacali, fiscali e ambientali decisamente arretrate. Adesso si sta per entrare nel vivo. Il Parlamento Europeo ha tenuto un'audizione in data 11 novembre con la Commissione al Mercato Interno. Entro fine novembre la direttiva verrà sottoposta all'esame del Consiglio dei Ministri Europei e si pensa che entro marzo 2005 arrivi alla fine dell'iter di approvazione da parte del Parlamento Europeo. Quindi entro pochi mesi ci potremmo trovare di fronte ad un cambiamento epocale, senza neanche avere capito cosa ci sta succedendo.
La direttiva parte dal presupposto che dal 1993, data della virtuale creazione di un mercato interno delle merci e dei servizi, ben poco sia accaduto per permettere alle imprese di sviluppare una reale concorrenza "transfrontaliera" e che i consumatori e gli utenti non abbiano dunque potuto godere a pieno del miglioramento della qualità dei servizi e del potenziale abbassamento dei prezzi. In sostanza, pensa la Commissione, c'è nell'economia un potenziale inespresso. Il ritardo dell'Europa e la sua bassa crescita vengono imputati alla resistenza vischiosa del vecchio sistema di vincoli. È il vecchio discorso dei lacci e lacciuoli. Il sistema non cresce e la colpa non è della politica fiscale restrittiva, della politica monetaria guardinga, della scarsa quantità e qualità degli investimenti aziendali, ma dei costi diretti e indiretti del welfare, troppo protettivo, troppo protezionista.
La ricetta è attaccare frontalmente la burocrazia, che limita la libertà d'impresa e ne intralcia lo svolgimento, per arrivare ad una concorrenza piena nel settore dei servizi, dove si annidano gli ostacoli principali ad un funzionamento efficiente della logica del mercato. L'impostazione ideologica del documento è molto chiara: la struttura dell'offerta nel campo dei servizi è imbrigliata da una serie di impedimenti, riconducibili principalmente al potere degli stati membri di disciplinare a livello nazionale i requisiti necessari per poter entrare ed operare sul mercato. La proposta che ne consegue è quella di ridurre drasticamente le competenze dei singoli stati membri nella produzione legislativa in materia e di rivoluzionare il criterio che storicamente rappresenta l'ossatura della costruzione europea: il principio di armonizzazione. L'armonizzazione graduale delle leggi e dei regolamenti presenti nei singoli stati membri alla normativa comunitaria ha consentito uno sviluppo lento e non traumatico dell'omogeneità in campo sociale, fiscale ed economico. Adesso si vuole passare di colpo al "Principio del paese d'origine", contenuto nel contestatissimo articolo 16 della Direttiva Bolkestein. In sostanza l'articolo stabilisce che qualunque fornitore di servizi, all'interno della Comunità, è soggetto solo alla legislazione del paese dove ha sede legale la società, e non alla legislazione del paese dove presta il servizio. Si tratta di una enorme trasformazione, che può interessare tutti i servizi vendibili, quindi esclusi solo quelli forniti dal settore pubblico in forma gratuita, e che può arrivare a coprire il 50% circa dell'economia comunitaria. È evidente che la direttiva, se approvata in questa versione, aprirebbe la strada a tre processi inevitabili:
- la completa apertura alla concorrenza e alla privatizzazione di quasi tutte le attività di servizio, dalle attività logistiche di qualunque impresa produttiva, ai servizi pubblici come istruzione e sanità;
- la deregolamentazione totale dell'erogazione dei servizi, con drastica riduzione delle possibilità d'intervento degli enti locali e delle organizzazioni sindacali;
- la destrutturazione e lo smantellamento del mercato del lavoro attraverso la precarizzazione ed il dumping sociale all'interno dell'Unione Europea.
E arriviamo così al vero cuore del problema. Con la direttiva Bolkestein il padronato europeo intende passare alla cassa e capitalizzare quello che davvero gli sta a cuore nell'allargamento dell'Europa a 25 membri: lo sfruttamento dei differenziali presenti tra vecchio gruppo e nuovi arrivati. Oggi all'interno dei 25 paesi esiste un differenziale di costo del lavoro, a parità di prestazione, che può andare da 1 a 8, se prendiamo i minimi della Romania e li confrontiamo con i massimi della Germania. Un differenziale così importante non può tenere per lungo tempo ed il capitale intende "portarlo a valore", facendo entrare a pieno titolo le prestazioni a costo più basso in media con le altre, per sfruttare il basso costo del lavoro all'est e usarlo come leva per abbassare le pretese dei lavoratori dell'ovest. I prodromi di questo ragionamento sono già presenti nella sconfitta dell'Ig Metall, un anno e mezzo fa, nel richiedere l'estensione delle 35 ore anche nelle regioni dell'ex Ddr. Le conferme ulteriori negli accordi alla Bosch (in Francia) e alla Siemens (in Germania), quando sono stati scambiati aumenti degli orari contro garanzie sull'occupazione. L'ultimo caso evidente è quello Volkswagen. Quello che abbiamo visto nella contrattazione alla Volkswagen rischia di diventare condizione comune: richiesta sindacale iniziale al 4,5% di aumento, ridotta al 2% in costo d'opera, e chiusa ad aumenti zero, con maggiori flessibilità d'orario, in cambio della promessa di mantenere in Germania i 120.000 posti di lavoro nei sei stabilimenti tedeschi. La delocalizzazione, già usata come clava nella contrattazione industriale, potrà ora essere estesa anche al protetto settore dei servizi grazie all'effetto prodigioso della direttiva Bolkestein.
L'Europa si sta dunque attrezzando alla competizione globale. Gli esempi non mancano. Gli Usa utilizzano da anni un modello produttivo come quello delle "maquilladoras", che insedia oltre la frontiera con il Messico gran parte del potenziale produttivo manifatturiero, con massicci risparmi sui costi ed elevata flessibilità produttiva. In Oriente il miracolo giapponese è cresciuto su cinque diversi livelli di sfruttamento della forza lavoro, diversificata dai livelli minimi del Vietnam, fino al livello massimo della madrepatria nipponica.
L'attacco al welfare ed all'autonomia degli stati nazionali può finalmente portare alla fine il modello "renano", già in profonda crisi per conto suo. Lo snellimento della struttura statale, l'alleggerimento delle prestazioni sociali fornite, l'allentamento dei vincoli che regolano l'attività d'impresa possono dare nuovo carburante al sistema del business, espandere il campo d'intervento dell'attività imprenditoriale privata, innalzare il livello dei profitti, a scapito delle garanzie sociali collettive.
Al capitale europeo si aprono prospettive nuove: c'è un terreno quasi vergine da arare, risorse naturali ed umane da sfruttare, una forza lavoro (talvolta di elevata qualità) da mettere alla prova, senza la necessità di pagarla granché. La fortezza Europa, che respinge i migranti non contingentati, non intende perdere l'occasione per livellare al ribasso le condizioni di lavoro e di vita dei propri cittadini, per liberare risorse da destinare ad un nuovo ciclo di accumulazione, di capitale e di profitti.
Lavorare per una evoluzione di segno diverso oggi significa, qui, difendere le conquiste realizzate sul campo attraverso cicli di lotta di svariate generazioni, e semmai spingere tutti insieme perché la costruzione europea non sia solo intesa come sviluppo delle migliori condizioni di profitto, ma come occasione di allargamento delle tutele, dei diritti e del benessere delle persone e dei paesi finora esclusi dalla "festa" capitalista.
Renato Strumia