Umanità Nova, numero 37 del 21 novembre 2004, Anno 84
Ritornare sulle elezioni americane senza sapere come e da chi
verrà costituita la prossima formazione imperiale del governo
planetario può risultare un inutile gioco ridondante. Tuttavia
è bene, a mio avviso, fare alcune considerazioni generali.
Innanzitutto, l'asimmetria di attenzione su un fatto pregnante della vita democratica di una nazione e, nel caso specifico, di buona parte della popolazione mondiale. Il modo in cui molti giudicano gli Usa dall'esterno dei suoi confini, ha a che vedere ovviamente con la sua politica estera (in senso lato: commerciale, culturale, politica, diplomatica…). Dall'interno dei propri rassicuranti e agiati confini (si fa per dire), invece, quella parte di opinione pubblica che sceglie o è messa nelle condizioni di trasformarsi in corpo elettorale - cioè quasi la metà degli aventi diritto al voto - non prende affatto in considerazione la politica estera quale fattore cruciale, discriminante o importante per la scelta elettorale, compiuta con cognizione di causa, come recitano i manuali di Scienza politica.
Infatti non è stata la guerra, con tutto il corollario di bugie, passi falsi, pantani e vittime innocenti (oltre mille yankees a fronte di quasi 100mila civili iracheni, secondo i recentissimi dati stimati dall'autorevole rivista scientifica inglese "The Lancet"), a orientare il voto degli americani. Né tuttavia sono state ragioni di politica interna, del genere la restrizione dei diritti civili con il Patriot Act dopo l'11 settembre, oppure la crisi debitoria del bilancio federale che rende accessibile a una buona parte degli elettori uno stile di vita affluente e per alcuni decisamente comodo e benestante, con i soldi, le rimesse, gli investimenti, le speculazioni monetarie sul dollaro e con quant'altro gli Usa fanno per drenare la ricchezza non prodotta a casa propria, bensì appunto all'estero.
Questo estero, per il cittadino del profondo sud o del ventre molle dell'immenso territorio americano, è ignoto; peggio, non suscita alcun interesse, alcuna curiosità, probabilmente il timore di confrontarsi con lo straniero, idealtipicizzato nella memoria collettiva con i pellerossa indigeni, sterminati due secoli orsono, lo rende ostile per principio, per timore, per sensi di colpa, nei riguardi del resto della popolazione del pianeta, percepita come un ingombrante ostacolo e fardello per il benessere a stelle e strisce, di cui occuparsi solo in determinati momenti, e per lo più solo con un unico strumento: lo strapotere della forza armata.
Questo genere di valore spirituale di una nazione, di un suo segmento particolare: i decisori sovrani una volta ogni quattro anni, si coniuga oggi con l'ottenebramento dei cervelli ragionevoli grazie alla litania religiosa di una destra compassionevole per pochi e arrogante come non mai per molti. È indicativa l'emergenza di un fondamentalismo religioso nei quattro angoli del mondo, a patto di includere il centro assiale della terra, l'occidente in declino nei suoi Lumi preparatori di tale tramonto (questo vuol dire occidente, appunto). Infatti proprio nel suo cuore pulsante la religione del testo sacro - la Bibbia, mica il Corano di bin Laden! - diviene il più efficace strumento di propaganda elettorale che mobilita qualche centinaio di milioni di individui, esattamente come altrove qualche milione di musulmani si muovono all'unisono ciondolando la testa nelle madrase pakistane, esattamente come altrove alcune centinaia di ebrei ortodossi leggono la Torah come testo esclusivo regolatore della loro esistenza in un mondo fatto di ascensori, telefoni, tostapane e asciugacapelli (pardon, asciugatrecce, per loro) che immancabilmente cessano di funzionare per diktat divino dalle 16 del venerdì sino a shabbat.
Proprio la spiritualità di un fatto totalmente laico come dovrebbe essere un voto elettorale, per il quale si sceglie un governante in base alle sue ragioni programmatiche, non certo in base alle sue virtù trascendentali, derivate direttamente da una investitura divina (a sua volta proiezione di una impotenza costitutiva degli individui, nani di fronte al dio gigante terribile del vecchio testamento, che mal si concilia con la pretesa di autogoverno dell'idea liberale prima, e democratica poi), motiva addirittura una eventuale scelta astensionista se il candidato reale non collima con il candidato ideale di elettori ispirati, "rinati" nel loro cristianesimo bigotto, ossessionante e intollerante. Le previsioni che l'elettorato astensionista da recuperare fosse solo quello di sinistra sottovalutavano proprio tale fattore spirituale nel diagramma di motivazioni che spingono un elettore conservatore ad affidarsi a valori non sottoposti al dubbio metodico, tipico del moderno illuminato dalla ragione.
La rielezione di Bush ci fa percepire con nettezza il limite di una democrazia liberale che si vuole appunto laica e razionale, allorquando i mezzi di persuasione di massa utilizzano vettori di consenso non laici e non razionali, non solo religiosi comunque: il consumismo commerciale, la frenesia vitalista, l'annullamento di sé nel gruppo vincente, l'assorbimento acritico di ogni mito bruciato nell'attimo stesso in cui viene divorato implodendo su di sé (vittime incluse: il totem delle autovetture omicide ogni week end), rappresentano quanto di meglio ci offre una civiltà spettacolare in cui la decisione razionale e ponderata sul modo migliore di autogovernarsi da parte di collettività emancipate e ragionevoli (così recitano sempre i manuali) è lasciata alla mercé di una miscela pericolosa tra ricchezza sfrenata e incomparabile perché prodotta e estorta con la violenza su scala mondiale (e non solo locale), che nelle tornate elettorali viene adoperata massicciamente per truccare i dati, conquistare le menti, catturare consenso, distribuire prebende, ecc. da un lato, e spregiudicatezza tesa al potere ad ogni costo, dall'altro, che non esista a declinare e titillare il peggio di una umanità colta nei suoi desideri viscerali, desiderosa di essere lasciata in pace a dominare il resto del mondo.
Nel caso in specifico, infatti, è plausibile ritenere che la base elettorale sedotta dalla potenza yankee sia più bigotta dei rappresentanti che invia democraticamente al governo, costretti in un certo senso ai tipici compromessi del ceto politico che naviga in mare aperto e conflittuale, con controparti non certo vogliose di farsi dominare senza condizioni (tranne Berlusconi, beninteso..). Ma la piramide slanciata verso una vetta dall'aria rarefatta per mancanza di spazi di mediazione possibili se non attraverso un sicuro e doveroso arretramento di posizioni da parte di élite dominanti, restie a cedere potere e privilegi, induce a un uso della violenza sempre più frequente e maggiore per tenere la difficile posizione sulla cima di una piramide in cui c'è e ci sarà sempre meno posti liberi.
Da qui la guerra preventiva e duratura, da qui l'investitura a Bush, già comandante supremo dell'impero, a guida consensualmente eletta da una minoranza della popolazione americana, convinta che la propria sopravvivenza come élite indottrinata e illusa nel proprio libero benessere passa attraverso l'impoverimento crescente sino alla morte degli altri (in senso sempre più letterale e sempre meno metaforico).
Salvo Vaccaro