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Umanità Nova, numero 38 del 28 novembre 2004, Anno 84

Israele/Palestina: il dopo Arafat
Verso la dissoluzione dell'Olp?




La scomparsa di Arafat lascia senza dubbio un vuoto di leadership politica reale, inversamente proporzionale alla risorsa simbolica per la causa palestinese, d'ora in poi più di prima. E ciò nonostante il Bolivar mediorientale si sia rivelato un patriota notevole ma uno statista mediocre, sia pure di quel pezzetto di terra autonoma sottoposta ai voleri suoi e del suo clan parentale, ma sempre nei limiti ultraristretti di una potenza occupante vogliosa di trovare un Quisling alla portata di mano.

L'abilità di Arafat a tenere desta l'attenzione su una popolazione priva di patria e di terra, colmando il gap presso le opinioni pubbliche europee e mondiali (non certo verso le diplomazie, anche quelle arabe locali) che simpatizzavano per la causa ebraica, specialmente all'indomani della shoah, fa del rais palestinese una figura risorgimentale di impronta garibaldina, a cui è mancato tanto un Cavour quanto, volendo proseguire nel parallelo per certi versi abusivo, un Giolitti. Ossia gli è mancato il momento costituente, a suo modo, di formazione di uno stato vero e proprio, e ciò sia per l'anomalia della cultura araba di questo secolo, complice il colonialismo, sia l'occupazione manu militari dei territori palestinesi da parte israeliana. Comunque anche in queste condizioni, la causa palestinese resta viva e vegeta sebbene il mondo sia stracambiato e abbia attraversato la guerra fredda, il disgelo apparente, e oggi la guerra permanente.

Il pericolo viene proprio dallo scenario odierno, e della mancanza di un erede politico di prestigio innanzitutto nei riguardi della propria popolazione - l'unico leader in pectore, Marwan Barghouti, è in galera e la sua più o meno caldeggiata e negoziata scarcerazione potrebbe rivelarsi un boomerang per la sua ascesa, per gli ovvi sospetti di favoritismi israeliani in cambio di qualche accordo sottobanco per la sua liberazione, magari precostituendo piattaforme di trattative tra i nemici storici senza consultazione popolare.

Ancora oggi sono incerti i raccordi tra le parti palestinesi in campo (Hamas, Jihad e Olp), insicura la tregua militar-resistenziale di attentati annunciata sul territorio israeliano, ignota la trasparenza delle procedure elettorali. Il guaio, appunto, è che la causa palestinese non è mai stata solamente tale, perché si è sempre incastonata in una causa israeliana, la quale per la sua politica odierna mal cela la tentazione liquidatoria presso gli occhi dell'opinione pubblica mondiale dell'intera questione palestinese. Una provocazione ben riuscita, il pantano nella successione ad Arafat, una faida tra i suoi seguaci (il nipote) e quelli del duo Abu Mazen - Mohamed Dahlan, la prospettiva tuttora viva del bantustan proiettato dal muro e dallo scambio Gaza libera da insediamenti e West Bank colonizzata con legittimità internazionale, potrebbero indurre l'attuale governo Sharon a muovere ogni pedina con forza per la dissoluzione completa dell'Olp, sgombrando il campo di un attore storico, laico e nazionalista, già malconcio e senza guida autorevole, per promuovere indirettamente come unico rappresentante del popolo palestinese - senza beninteso chiederne il parere - Hamas e la Jihad, privata dei suoi vertici nazionalisti; ciò avrebbe l'effetto immediato di derubricare la questione palestinese non più a problema politico mediorientale, fatto di compromessi ineluttabili e rinviabili, ma non all'infinito, tra trend demografici, cessione di territori, accesso alle risorse, formazione di una entità statale, quanto ad un tassello della geopolitica dello scontro di civiltà in cui si contrappongono le forze del terrore - tra le quali appunto l'immagine di un Hamas privata con l'omicidio selettivo dello sceicco Yassin e di Rantisi, da sempre oppositori di una intromissione del jihad fondamentalista globale di Al Qaeda nella questione locale palestinese, e quindi forse più incline ad abbracciarne lo spirito se non le forme - e le armate vittoriose del bene, simboleggiate dalle democrazie militarizzate di Israele e del suo boss (o maggiordomo?) statunitense.

Se ciò risultasse uno scenario plausibile, la geografia politica del mondo cambierebbe drasticamente e una sinistra terzomondista si troverebbe doppiamente orfana, mentre la popolazione palestinese si ritroverebbe regredita a mero target senza speranze, come sono oggi il popolo iracheno e domani, a quanto sembra, il popolo iraniano. Cancellata come causa nobile tardo-risorgimentale, il medioriente arabo verrebbe risucchiato nel dimenticatoio della storia, esattamente come gran parte dell'immenso continente africano, con Israele a giocare il ruolo di capofila della regione, per chi ci sta, a mo' del Sudafrica di Mandela, mimato tanto nella funzione odierna, quanto, per ironia della sorte, per il regime dell'apartheid, convincendo oltre modo quanti ritengono, e speriamo che i fatti non rafforzino tale idea, come la soluzione ebraica fosse stata meno nociva per il mondo arabo se i superstiti della shoah fossero stati inviati giù sino in fondo all'Africa, e non invece a risvegliare una disputa storica millenaria su Gerusalemme e sul primato di una religione monoteista sull'altra, riaccendendo una carneficina ora a bassa, ora a alta intensità, che sembrava assopita ai tempi della colonizzazione europea.

Salvo Vaccaro




























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