Umanità Nova, numero 39 del 5 dicembre 2004, Anno 84
Come è noto, in seguito all'assassinio per rapina di un anziano
benzinaio lecchese, casualmente anche militante di base della Lega
Nord, alcuni ministri della Repubblica, anch'essi militanti, ma non
casualmente, della medesima Lega Nord, hanno prontamente rispolverato
il mai sopito forcaiolismo del loro partito, proponendo una taglia atta
a scoprire gli assassini. Il tutto condito, come non è difficile
immaginare, da articolate e coerenti analisi sociopolitiche, quali
"nessuno può permettersi di toccare un padano" (perché,
gli altri sì?) oppure "avrei voluto mettere 'vivi o morti' ma mi
hanno spiegato che non si può". A parte il fatto che ci pare
bizzarro che si debba ancora spiegare a un ministro della Repubblica
che in Italia non è prevista la pena di morte né
l'esecuzione sommaria (e questo la dice lunga sulla serietà dei
criteri con i quali vengono attribuite tali "vitali" cariche
istituzionali), non ci sembra comunque che ci si sarebbe potuto
aspettare qualcosa di diverso da personaggi abituati ad esprimere con
solida rozzezza primitivi concetti quali lo sventolio, in Parlamento,
di cappi e forche. Piuttosto, bisognerebbe meravigliarsi del candore
delle tante anime belle della pubblica decenza, scandalizzate
perché i capibastone della Lega, dando fiato ai tromboni della
identità padana, hanno allietato il paese con la consueta
vagonata di magniloquenti sproloqui.
Evitando quindi di arricciare il naso anche noi per l'ineleganza delle forme con cui si è manifestata questa ennesima rissa nel pollaio governativo, mi pare, piuttosto, più conveniente prestare attenzione alla sostanza dell'attacco leghista a Pisanu e all'attuale ministero degli interni. Perché al di là della volgarità della faccenda, in effetti si tratta di un attacco in piena regola. Ed è su questo che mi sembra utile cercare di ragionare.
È innegabile che, con l'avvento di Pisanu al Viminale, si sia ripristinata una tradizione cinquantennale, provvisoriamente troncata solo in questi ultimi anni. Come si sa il Ministero degli Interni, uno dei cardini del sistema repressivo, di controllo e di potere dello Stato, è sempre stato feudo della Democrazia Cristiana, di destra o di sinistra che fosse. Da Taviani a Scelba, da Restivo a Cossiga, sono sempre stati gli uomini del Centro, per centro intendendosi il centro gravitazionale del paese, a gestire questo ganglio fondamentale della politica italiana. Consapevoli, i cosiddetti poteri forti che ci governano veramente, che solo una struttura capace di comprendere al suo interno tutte le anime del paese poteva esercitare con la dovuta efficacia l'effettivo e necessario controllo sulla vita sociale dell'Italia. E i vari ministri che si sono succeduti, pur nella diversità delle singole impostazioni politiche, hanno tuttavia rappresentato e garantito con perfetta continuità il ruolo loro richiesto: repressivo quanto bastava, permissivo quanto necessario, oscuro e solare a seconda delle circostanze e delle necessità. Si ammazzavano gli scioperanti nelle piazze ma si garantiva lo svolgimento dei comizi; si invadevano intere regioni in nome della lotta alla criminalità, ma si chiudeva volentieri qualche occhio, più di quanto fosse lecito aspettarsi, su piccole devianze e trasgressioni. In sostanza, l'eterna politica del bastone e della carota (anche se con la marcata preponderanza del bastone) che ha rappresentato una delle costanti, e non certo delle meno importanti, della gestione del potere in questi ultimi decenni: un organismo pronto a tutto e di tutto capace (e noi anarchici ne siamo buoni testimoni), ma sempre formalmente rispettoso della cosiddetta legalità repubblicana e dei pluralismi presenti nella società.
È altrettanto innegabile, mi pare, che Pisanu sia l'impareggiabile continuatore di questa tradizione amministrativa, affidata ora alle consuete mene poliziesche, ora attenuata e ingentilita dall'influsso di un grossolano ma sperimentato sociologismo cattolico. Moderato quanto basta ma non reazionario, fermo nelle decisioni ma non dispotico, pronto a colpire gli anelli deboli della catena ma attento a non intervenire su equilibri da lungo tempo sedimentati: rappresenta, dopo l'infelicissima esperienza dell'ormai dimenticato Scajola, il preteso aspetto tecnocratico e non ideologico di quella funzione. E le frequenti collaborazioni istituzionali con la parte "ragionante" dell'opposizione, promosse nel più perfetto spirito bipartisan, stanno a testimoniare della sua curialesca capacità di tessitore e mediatore. Insomma, il vero democristiano di una volta, espressione e garante della continuità del sistema.
Appare chiaro, a questo punto, come un tale personaggio confligga oggettivamente con i vertici di una Lega che ancora si definisce rivoluzionaria, ma che è talmente spiazzata nelle sue pretese "federaliste", da comprendere sempre meno quale e dove sia, in questo momento, il suo campo d'azione. Di qui, dunque, non solo le scontate menate di figuri impresentabili quale Borghezio o Gentilini, ma anche l'attacco "istituzionale" al ministro Pisanu di ben tre dei suoi colleghi. Un attacco che, dietro al ballon d'essai puramente mediatico e strumentale della taglia, nasconde una volontà repressiva e forcaiola che parte da molto più lontano che non l'assassinio del benzinaio di Lecco. E infatti la reiterata proposta della istituzione della polizia federale e di un ministero della polizia slegato dal Viminale è il vero asso di bastoni calato da Castelli e Calderoli in questa partita giocata con Pisanu. Che costui poi abbia testualmente bollato come "sceme" le parole dei leghisti, nulla toglie alla gravità dello scontro in atto: da una parte chi vede la possibilità di un maggiore controllo sociale nella decentralizzazione delle funzioni repressive (e il sostanziale silenzio dei fascisti di AN fa capire da che parte questi stiano veramente), dall'altra chi ritiene, nel solco della tradizione, che solo una polizia centralizzata e sotto controllo istituzionale ha veramente la forza per svolgere le sue funzioni con le potenzialità repressive necessarie. Tanto per fare un esempio: la lotta alla cosiddetta immigrazione clandestina trova maggiore efficacia in un'azione coordinata a livello centrale o garantisce maggiori espulsioni laddove ad operare sia una pattuglia lumbarda, più radicata nel territorio? Oppure, la tale manifestazione sovversiva viene bastonata meglio da un corpo di polizia diretto dal Viminale, da uno emanazione di un ministero apposito, o da quello i cui componenti parlano tutti lo stesso dialetto? Insomma, un bel problema questo della razionalizzazione del processo repressivo!
Noi, da parte nostra, una soluzione in tasca l'avremmo anche, perché il mondo che vogliamo non prevede né ministeri né ministri, soprattutto di polizia. Eppure, non so perché, non credo che questa nostra soluzione troverebbe attenzione fra i protagonisti dell'interessante dibattito di cui abbiamo parlato.
Massimo Ortalli