Umanità Nova, numero 39 del 5 dicembre 2004, Anno 84
Se la battuta più esilarante spetta al Mago Forrest di Mai dire
Iene (in fondo un dipendente del Cavaliere), la sintesi migliore di
quanto è accaduto l'ha data, a mio avviso, Il Sole 24 Ore
del 26 novembre, in prima pagina. Si vede di profilo un faccia a faccia
tra Berlusconi e Siniscalco e in mezzo ai due ci sono due curve su un
diagramma. Quella blu rappresenta l'aliquota media attuale, quella
rossa l'aliquota media futura. Sull'asse delle ascisse ci sono i
redditi, espressi in decine di migliaia di euro. La verità salta
agli occhi subito: le due curve procedono prima sovrapposte, fino a 20
mila euro, poi si separano leggermente, ma procedono affiancate, molto
vicine, fino a 70 mila euro. Dopo i 70 mila euro le due curve si
separano nettamente: quella rossa prosegue molto più in basso di
quella blu e lascia intuire che dopo i 150 mila euro la distanza, che
è già oltre il 5%, tende a crescere, all'infinito. Le due
curve hanno un andamento divaricante: rappresentano bene il grado di
disuguaglianza crescente che caratterizza la società italiana.
Questa disuguaglianza è già cresciuta molto in questi
ultimi 10 anni: si stima che la forbice dei redditi tra il decile
più basso ed il decile più alto sia in Italia ormai
superiore a quella degli Usa, con valori molto oltre la media dei paesi
Ue.
Del resto non è un mistero per nessuno il carattere redistributivo della politica dei redditi attuata in Italia negli ultimi 12 anni: dai salari ai profitti, dai salari alla rendita, dai salari al prelievo fiscale. Un trasferimento a senso unico, su cui si è innestata anche l'introduzione dell'euro, che ha ulteriormente spostato l'onere dello shock inflazionistico sui percettori di redditi da salario e pensione e sulle fasce di popolazione a struttura di consumo più elementare. Su un corpo sociale così impoverito, la riforma fiscale del governo Berlusconi rischia di infliggere colpi ulteriori e pesanti.
La "svolta" è indubbiamente maturata dopo la vittoria di Bush nelle elezioni americane. La lettura che subito ne ha dato il capo del nostro governo è stata tutta "fiscale": Bush ha vinto perché ha abbassato le tasse, ha fatto arrivare a casa gli assegni di rimborso, sostenendo per questa via i consumi e l'illusione che l"american way of life" non abbia ancora finito di produrre benessere ai suoi convinti sostenitori. La politica dell'amministrazione è stata premiata perché ha usato nel modo più spregiudicato le leve monetarie (tassi d'interesse ai minimi storici), e le leve fiscali (l'indebitamento, il disavanzo fiscale dello stato, il deficit spending) pur di raggiungere i suoi scopi: tenere a galla l'economia, finanziare i consumi privati, consentire nuovi debiti, favorire la crescita e infischiarsene del debito pubblico o del deficit commerciale con l'estero.
Berlusconi ha subito capito che questa lezione andava applicata in Italia, se voleva avere qualche chance di ritornare a vincere le elezioni politiche del 2006 e almeno pareggiare quelle regionali del 2005. Da qui l'accelerazione al quadro politico ed il ricatto pesante nei confronti degli stessi alleati di governo. Il 2005 è l'ultimo anno fiscale prima delle elezioni che contano. La promessa elettorale delle due sole aliquote (al 23% ed al 33%) non può essere neanche presa in considerazione nel contesto attuale; ma tentare un primo, parziale, avvicinamento diventa questione di vita o di morte.
La pressione nei confronti degli alleati ha alla fine prodotto un compromesso spendibile, sul piano politico. Le aliquote previste dalla riforma sono le tre già preannunciate, con limiti leggermente modificati: 23% fino a 26.000 euro, 33% fino a 33.500, 39% oltre quella cifra. Per redditi superiori ai 100.000 euro, contributo di solidarietà al 4% ma solo per il 2005, poi si vedrà come rimodulare questo tributo.
Sono state spese molte parole, anche sui giornali liberal come Stampa e Repubblica, per dimostrare l'inconsistenza della politica governativa. Limite del resto ammesso dallo stesso Berlusconi, che non nutre illusioni sull'efficacia taumaturgica del taglio previsto e che si è spinto, in conferenza stampa, in un incredibile allungo keynesiano, quando ha detto che solo una manovra fiscale attuata senza copertura, cioè in deficit, può stimolare veramente l'economia. Nel suo consueto editoriale domenicale, Scalfari parla di taglio fiscale da trenta cappuccini al mese e spalma un po' di sale sulle ferite del governo, citando come il 75% del beneficio fiscale vada al 36% della popolazione, mentre l'altro 64% delle famiglie dovrà accontentarsi del solo 25%. Considerazioni analoghe appaiono un po' su tutta la carta stampata, mentre le magnifiche imprese del governo vengono illustrate solo nelle televisioni sotto controllo, cioè quasi tutte.
Nel dettaglio, la manovra privilegia indubbiamente le famiglie, rispetto alle imprese, forse perché è lì che si concentrano di più gli elettori, forse perché il consenso delle imprese è dato per perso. Dei 6,5 miliardi di euro di tagli, 6 riguardano la vecchia Irpef personale e lo 0,5% l'Irap delle aziende. In realtà nella competenza del 2005 solo 4,3 miliardi di euro saranno effettivamente risparmiati, mentre i tagli effettivi si concentreranno nel biennio 2006/2007. Il finanziamento di questi tagli ha rappresentato il più grave motivo di contrasto dentro la maggioranza, con soluzioni che tutto lascia presupporre come alquanto provvisorie. Metà dalla manovra fiscale 2005, cioè 2 miliardi di euro, dovranno venire dal condono edilizio; quel condono edilizio che nel 2004 non ha funzionato (sono entrati 500 milioni rispetto ai 3.000 previsti) e che ha lasciato dietro di sé il buco più importante nel bilancio dell'anno in corso (coperto alla disperata con anticipi di imposte su banche ed assicurazioni). Si rimanda cioè al 2005 un problema irrisolto nel 2004, mentre si capitalizzano entrate che sarebbero di competenza di anni successivi. Il resto della copertura proviene da aumenti di tasse e concessioni governative, risparmi sugli acquisti di beni pubblici e frattaglie del bilancio dello stato, che però rischiano di compromettere l'attività corrente della funzione pubblica, come ha ripetutamente avvertito la Ragioneria Generale dello Stato. Il peso delle una tantum nel finanziare una manovra che si pretende strutturale è decisamente elevata, oltre il 50% del volume totale. La Commissione Europea avrà sicuramente da ridire.
Del resto questo è uno degli obiettivi grossi del governo, in questa fase. Rivedere il patto di stabilità, ridefinire le regole, smantellare i vincoli di Maastricht fa parte di una strategia ormai esplicitata, che si vuole accelerare. Approfittando della crisi generalizzata che investe la Commissione e la situazione precaria in cui versano i deficit pubblici dei principali Paesi (Germania, Francia, ora anche Italia, Portogallo e Grecia), il governo intende rompere il fronte del rigore e farsi paladino di un cambiamento di marcia, un vero terremoto rispetto alle istituzioni di comando dell'Uem, la politica monetaria della Banca Centrale Europea, le regole rigide previste da un trattato di oltre 12 anni fa, ormai superato dalla realtà. La realtà è un'economia europea inchiodata, una valuta forte senza alcun merito fondamentale, una scarsa competitività dei prodotti, una popolazione sempre più vecchia, un welfare sempre più stressato. In questo contesto è facile predicare come terapia uno shock dal lato dell'offerta, nella tradizione reaganiana della "supply side economics".
La strategia di attacco del governo non è ovviamente in grado di cambiare, da sola, l'orientamento politico del sistema Europa. Quello che però sembra in grado di ottenere è un ammorbidimento delle regole sul deficit annuale, riscotendo la cambiale a sua volta avallata per permettere lo sfondamento, un anno fa, a Francia e Germania, senza applicazione di sanzioni. In fondo, a Berlusconi interessa sopravvivere politicamente anche dopo il 2006, e quello che gli basta, ora come ora, è strappare un atteggiamento tollerante rispetto ai vistosi buchi di copertura della sua manovra di marketing fiscale.
La copertura tanto sbandierata infatti è molto aleatoria. Del 2005 abbiamo già detto. Dal 2006, ha assicurato Siniscalco, la copertura è "blindata": entrando nel merito però vediamo che il grosso dovrebbe venire dai 75.000 statali in meno entro il 2007 (un blocco del turn over che farebbe assumere 1 dipendente ogni 5 che se ne vanno) ed il resto dal consueto mix di aumenti di sigarette, cartolarizzazioni, tagli sugli acquisti. C'è da dubitare che questi risparmi saltino fuori veramente, tenuto conto dei sistemi con cui viene costruito il consenso per partiti come An e Udc.
Per quanto riguarda le imprese, non si può certo affermare che abbiano avuto soddisfazione. L'abbassamento dell'Irap, che veniva richiesta in forma generalizzata per la fiscalizzazione di tutto il costo del lavoro, si riduce a ben poca cosa, con 20.000 euro di esenzione per ogni neo-assunto, che sale a 40.000 euro al Sud, e l'esenzione totale per i costi di ricerca. Tenuto conto che in Italia si assume poco (soprattutto in forma regolare e continuativa) e che si fa poca ricerca, per le imprese non si è ottenuto granché.
Sull'efficacia fiscale della manovra è lecito dubitare: il tipo di taglio fiscale prescelto fa risparmiare pochissimo fino a 20.000 euro (da 0 a 66 euro l'anno), qualcosa in più tra 20 e 30.000 euro (tra 100 e 300 euro l'anno) grazie soprattutto al diverso sistema delle deduzioni, qualcosa in meno tra i 30 e i 40.000 euro, e poi guadagni via via più forti man mano che aumenta il reddito annuo disponibile. È stato calcolato che Totti risparmierà 600.000 euro, ma è difficile pensare che la massa dei consumi possa ripartire perché lui potrà permettersi due Ferrari in più. Il rilancio dei consumi per le fasce medio basse non potrà tradursi in realtà, semplicemente perché non subirà alcuna variazione di rilievo il potere d'acquisto di questi segmenti, cui si toglie con maggiori imposte locali sui servizi quello che viene restituito di Irpef a livello generale.
La manovra è evidentemente una trovata pubblicitaria che può dimostrarsi di una certa efficacia, più per demerito dell'opposizione che per meriti del governo.
Renato Strumia