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Umanità Nova, numero 39 del 5 dicembre 2004, Anno 84

Paolo Dorigo sta morendo
11 anni di galera e 2 mesi di sciopero della fame




"Paolo Dorigo è un detenuto politico che, dopo un processo ritenuto irregolare dalle stesse istituzioni giudiziarie europee, è stato condannato ad una pena spropositata: 13 anni di carcere (di cui 11 già scontati) - per un attentato dimostrativo contro la base Usaf di Aviano che non provocò alcun danno a persone. Mentre continuano le proteste, si firmano petizioni, si indicono manifestazioni, le condizioni di Paolo Dorigo - detenuto nel carcere speciale penale di Spoleto - si aggravano quotidianamente. Da oltre due mesi, Paolo Dorigo fa lo sciopero della fame; l'ennesimo sciopero della fame (più di 400 giorni negli ultimi due anni) nell'indifferenza di chi è responsabile per le atrocità di cui Paolo è vittima." (Dal comunicato di solidarietà emesso dai compagni del Coordinamento Anarchico Veneto).
La vicenda di Dorigo, militante comunista sottoposto ad un regime carcerario durissimo, mirante al suo annientamento psico-fisico, potrebbe giungere presto ad un tragico epilogo. In una lettera inviata ai suoi legali il 25 novembre Dorigo afferma: "Voglio portare lo sciopero della fame fino alla morte perché devo essere un simbolo per tutti coloro che sono vittime, come me, di un trattamento inumano e degradante".
Di seguito vi proponiamo i ricordi e le riflessioni di un collaboratore di UN che lo ha conosciuto prima che le sbarre di una cella gli rubassero la vita.


L'ultimo ricordo che ho di Paolo Dorigo risale a tredici anni fa, più o meno. Eravamo davanti a un piatto di gnocchi al gorgonzola, in un piccolo ristorante a dieci minuti da dove abito oggi. Chissà per quale motivo, ma continuo a pensare a quella sera e a quella cena, quando con gli altri commensali ridacchiavamo sulla sfida tra lui e la cuoca per la quantità industriale di gnocchi che Paolo aveva chiesto e sosteneva di poter ingoiare tutti, fino all'ultimo.

Un poco alla volta ho capito perché quel tavolo d'estate nel giardinetto interno di una Venezia remota è stampato nella mia memoria. È lì che vorrei tornare per fermare in qualche modo la storia. Chi ha conosciuto Paolo, sa che ogni cosa nella sua vita è stata sempre portata all'estremo, e dunque anche la sua militanza politica. Un impegno "rivoluzionario", come lo chiamerebbe lui, che ha radici antiche nella sua vicenda personale e che risale almeno alla fine degli anni Settanta.
Resta il fatto che oggi, dopo un'assurda condanna a tredici anni, dei quali undici scontati, Paolo è in gravi condizioni di salute e si teme per la sua vita. Dichiaratosi da subito prigioniero politico comunista, ha sempre rifiutato qualsiasi soluzione comoda e ancora adesso, dopo una gravissima perdita di peso per un uomo di quasi un metro e ottanta di altezza, si oppone con fermezza a tutto ciò che non sia una riapertura del suo processo. Cinque anni fa il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha richiesto allo Stato italiano di provvedere ad un immediato giudizio di revisione di una condanna inflitta violando la legge sul giusto processo. Cinque anni: mille ottocento venticinque giorni trascorsi rinchiuso in cella, mentre il tempo trascorre lentissimo e la vita scivola via uguale a se stessa. 

Il magistrato di sorveglianza di Spoleto il 16 novembre scorso ha rigettato l'istanza di differimento dell'esecuzione della pena perché la debilitazione fisica di Paolo è stata "indotta volontariamente". "Considerato che la legge (art. 147 del c.p. e 684 del c.c.p.) nonché la Carta Costituzionale non operano alcun distinguo fra grave infermità indotta o sopravvenuta, al cospetto di una incompatibilità col regime carcerario inframurario quale che ne sia la causa", hanno scritto i suoi difensori, "è obbligatoria la sospensione dell'esecuzione della pena." Tra un cavillo giuridico e l'altro l'identità di Paolo si sta perdendo nelle nebbie della giurisprudenza e quel che è peggio anche le ultime forze se ne stanno andando. Come abbiamo appreso da molta letteratura, la detenzione serve anche a questo: a far scomparire quegli ultimi barlumi di coscienza individuale che il detenuto politico Paolo Dorigo ha appeso al labile filo della protesta del corpo, rivolgendo contro se stesso tutto il peso insopportabile della condizione del recluso. 

Non c'è dubbio sul fatto che a Paolo sia stata inflitta una sottile forma di tortura psicologica, come ha denunciato pubblicamente suo padre, e per quel poco che l'ho conosciuto, per la caparbietà con la quale ha difeso e difende le sue posizioni, non ho nemmeno dubbi sul fatto che sia, da un certo punto di vista, il capro espiatorio perfetto all'interno di una procedura di controllo attivata per disciplinare quanti resistono alla cloroformizzazione del pensiero, dentro un mondo declinato dalla televisione e da qualche centinaio di guerre sanguinose sparse in tutto il pianeta. Non trovo altre spiegazioni, del resto, all'insistente volontà di punirlo ad ogni costo, togliendogli con efferata lentezza il respiro mentale fino a renderlo la pallida ombra di se stesso.

Non riesco a figurarmi, mentre scrivo, una soluzione possibile. La mobilitazione di quest'ultime settimane dimostra che siamo in tanti a pensare che a Paolo devono essere riconsegnati i suoi diritti, e subito. Ma non saranno due o tre righe in più a fare la differenza, questo è certo. 

Mia figlia è nata quasi cinque anni fa e mentre io la guardavo crescere, Paolo guardava il mondo da dietro le sbarre, aspettando che la sentenza del Consiglio d'Europa fosse recepita dall'Italia per rimettere in gioco la sua vita. Ho pensato spesso a questa tremenda differenza che ci separa: io di qua e lui di là, divisi irrimediabilmente da un portone sempre chiuso. Dentro e fuori, in una orribile giostra del potere. Per non fare di Paolo l'ennesima vittima di questo ignobile "stato delle cose" che a vario titolo chiamano democrazia, dobbiamo dirlo a voce alta, ovunque, che questa è un'altra condanna a morte annunciata. 

Mario Coglitore





























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