Umanità Nova, numero 40 del 12 dicembre 2004, Anno 84
Non è facile avere notizie attendibili sulla vastissima e
variegata situazione operaia in Cina. Quelli che seguono sono ampi
stralci di alcune note comparse su Freedom, quindicinale anarchico
londinese, del 27 novembre u.s. (trad. AEnne)
Molti lavoratori cinesi, sottoposti ai più brutali eccessi del
capitalismo moderno, stanno dando vita a proteste di massa, scioperi,
blocchi e rivolte.
La dittatura del Partito Comunista Cinese si trova ad affrontare una
crescente opposizione ai piani di privatizzazione delle oltre 70.000
fabbriche di stato, principalmente a causa del fatto che i primi
assaggi di questa manovra hanno già comportato massicci esuberi
e tagli ai salari ad una forza lavoro già super sfruttata e
oppressa.
Recentemente, le province dello Shaanxi e Anhui hanno visto due mesi di
proteste, culminate con uno sciopero di 7 settimane alla fabbrica di
cotone n. 7 a Xianyang; migliaia di lavoratori hanno bloccato un
importante nodo ferroviario il 31 ottobre. A Xian, capitale dello
Shaanxi, un migliaio di operai hanno occupato il capolinea degli
autobus per oltre un mese, per protestare contro i progetti di svendita
della loro fabbrica.
La Tessile Tianwang si è dimostrata particolarmente
militante. Messi di fronte alla prospettiva di venir licenziati con una
indennità pari ad un salario mensile per ogni anno di lavoro,
per poi venir riassunti con una paga base inferiore, i 7.000 lavoratori
sono usciti, preferendo affrontare la repressione piuttosto che
accettare le nuove condizioni. Dopo quattro giorni di protesta, i
lavoratori hanno costretto alla ritirata un migliaio di poliziotti
antisommossa, equipaggiati cogli idranti.
Fra le richieste hanno avanzato anche quella di poter eleggere i propri
rappresentanti sindacali. La legge cinese prevede infatti che sia
consentita la sindacalizzazione, purché nel sindacato unico di
stato, la Federazione sindacale Pancinese, i cui quadri sono nominati
dall'alto.
La determinazione del governo di mantenere questo saldo controllo sulle
organizzazioni dei lavoratori ha però prodotto inattesi
conflitti. Le multinazionali straniere che hanno investito in Cina e
tradizionalmente ammettono i sindacati gialli (qui è il caso di
chiamarli così, anche se suona poco appropriato, ndt),
cioè interni alla logica aziendale – Walmart, McDonalds, Dell,
Kodak, Samsung e KFC, tanto per citarne qualcuna – hanno più
volte tentato di tener fuori il sindacato nazionale, incapaci di far
fronte anche a questa forma di organizzazione strettamente controllata
dalla burocrazia. Il che ha ingenerato un conflitto fra le due forze:
il Partito Comunista e le multinazionali, per il controllo della forza
lavoro. Da una parte il PCC è determinato a mantenere i suoi
uomini nella gestione della contrattazione nelle industrie dominate dal
capitale estero, dall'altra gli investitori stranieri vorrebbero veder
praticate sul loro terreno le condizioni che sono in grado di
controllare direttamente, come altrove.
Al di là di queste scaramucce, non è certo facile per
i lavoratori cinesi trovare uno sbocco alla loro situazione. Quanti si
sono trovati coinvolti nelle proteste di massa sono in realtà
soggetti alle peggiori condizioni lavorative in senso assoluto. Presso
la fabbrica Computime di Shenzen, oltre 3.000 lavoratori hanno
protestato con scioperi prolungati e blocchi stradali, mentre fra
l'altro lamentavano giornate lavorative di quattordici ore sette giorni
su sette, con una paga meno della metà del salario minimo della
provincia. L'organizzazione del lavoro era così rigida da
prevedere capi squadra per sorvegliare chi andava al cesso, con tanto
di firma all'uscita ed al rientro e sanzioni in caso di assenza troppo
prolungata. Tenendo testa alle minacce della polizia antisommossa, essi
sono infine riusciti ad ottenere un aumento del 170% sulle paghe, quasi
pari alla paga base media provinciale.
La pratica dello "Stato del Popolo" è comunque quella del
bastone, consentendo concessioni dove proprio non ne può fare a
meno. Due lavoratrici tessili di Zhonghong, nella provincia dello
Jiangsu, Ding Xiulan e Liu Meifeng, sono state arrestate agli inizi di
novembre dopo aver preso parte ad uno sciopero durato diciassette
giorni, il mese precedente. Sono accusate di "disturbo dell'ordine
sociale" e di aver "provocato disordini". Il loro arresto è
avvenuto dopo che era stata data ampia pubblicità alle condanne
a tre anni e mezzo a tre lavoratori del calzaturificio di Xing Ang,
arrestati lo scorso aprile. Chen Nanliu, Ma Chengwai e Qu Pengtao hanno
subito la condanna dopo un processo durato non più di un'ora a
porte chiuse. La lotta per cui erano stati arrestati reclamava il
pagamento di arretrati di sei mesi, con la ditta che detraeva quasi per
intero il salario per spese di vitto e alloggio, e la settimana
lavorativa arrivava a 66 ore.
Malgrado la brutalità della repressione governativa, è facile prevedere che le drastiche condizioni di lavoro in Cina inevitabilmente condurranno anche in futuro a simili proteste.
Jack Ray
Nota: un interessante spaccato delle contraddizioni che il paese sta
attraversando si hanno nel libro di Charles Reeve e Xi Xuanwu: Tianixia
diyu (L'inferno sulla terra), ed. Ass. M. Gaismair, Vipiteno 2000, da
cui è/sono tratta la foto qui riprodotta.