Umanità Nova, numero 41 del 19 dicembre 2004, Anno 84
Dietro l'ipocrita appello di Ciampi c'è la sistematica
violazione dell'embargo UE: in 10 anni l'Italia ha venduto armi alla
Cina per un valore di circa 200 milioni di euro. Il ruolo
dell'industria italiana dei "grandi sistemi d'arma" e delle "armi
leggere"
Hanno destato un certo scalpore negli ambiente pacifisti le
dichiarazioni del presidente della repubblica Ciampi sulla
volontà italiana di far togliere l'embargo sulla vendita di armi
alla Cina, decretato dalla UE nel 1989 dopo la carneficina di piazza
Tienanmen. Lo scopo di Ciampi e della delegazione dei capitalisti
italiani che lo ha accompagnato nel lungo tour cinese era evidentemente
quello di garantire all'industria armiera italiana una "nicchia" nel
ricco mercato bellico cinese. Le reazioni all'appello dei piazzisti di
armi italiani sono state modeste: oltre al rituale silenzio della
sinistra moderata (i DS sono da sempre appiattiti sugli interessi delle
fabbriche di armi nazionali) si sono notate incredibili prese di
posizione della sinistra radicale (Rifondazione) che ha lamentato il
fatto che la Cina "non rispetta i diritti umani" (perché se li
rispettava era giusto vendergli un po' di carri armati, corrazzate,
missili e pistole?).
Ma lo stupefacente è che in pochi hanno avuto il coraggio di denunciare l'ipocrisia del messaggio di Ciampi e dei suoi pari: l'Italia, infatti, è da almeno un decennio che non rispetta l'embargo UE alla Cina! L'Osservatorio sul commercio delle armi dell'IRES Toscana (OSCAR) dimostra infatti che le esportazioni belliche italiane alla Cina sono ammontate negli ultimi 10 anni a circa 200 milioni di euro. E sono in continuo aumento come mostrano i dati contenuti nella Relazione parlamentare sulle esportazioni italiane di armi: nel 2003 l'Italia ha consegnato o ha autorizzato la vendita di armi alla Repubblica popolare cinese per un totale di 122 milioni di euro. La Cina è stato nel 2003 il terzo miglior cliente dei mercanti di armi italiani, dietro Grecia e Malesia e davanti ad Arabia saudita, Francia e Pakistan. Gli italiani insomma non hanno atteso la fine dell'embargo per fare ottimi affari con l'esercito cinese facendo finta di non sapere, ad esempio, che nel dicembre 2003 il parlamento europeo ha confermato l'embargo votando a larghissima maggioranza un documento nel quale si afferma che "la situazione dei diritti umani in Cina resta insoddisfacente". Da parte sua Amnesty International denuncia che "la situazione dei diritti umani presenta in Cina un quadro terrificante: centinaia di migliaia di persone continuano ad essere arrestate in tutto il paese in violazione dei fondamentali diritti umani, condanne a morte e ad esecuzioni hanno luogo regolarmente al termine di processi irregolari; i maltrattamenti e le torture sono tuttora diffusi e sistematici; la libertà di espressione e di informazione rimane fortemente limitata." Appare quindi tristemente ridicolo leggere nella Relazione parlamentare che "il governo ha mantenuto un atteggiamento di cautela verso i paesi in stato di tensione". Alla faccia della cautela. D'altra parte lo si sa bene: quando si tratta di fare affari non è il caso andare tanto per il sottile. Se pagano, vanno bene anche i "comunisti"!
L'uscita "cinese" di Ciampi si inquadra nella più vasta offensiva per ridare un ruolo di primo piano all'industria bellica nazionale. Anche se paiono lontani i "magnifici anni 70", quando la politica estera di basso profilo dei governi democristiani aveva guadagnato fette importanti di mercato alle industria nazionali delle armi (quinto posto nella graduatoria mondiale dietro USA, URSS, Francia e Gran Bretagna), è un fatto che le industrie italiane - largamente partecipate dallo Stato - stanno riuscendo a sopravvivere e a guadagnarsi una posizione di rilievo nel difficile mercato mondiale della "difesa". Se è ancora presto per capire i benefici portati dalla "riforma" della legge sulle esportazioni di armi (185/90) che annacquando i controlli governativi ha favorito le cosiddette "triangolazioni", cioè la vendita di armi a paesi colpiti da embargo per il tramite di paesi compiacenti, è però facile constatare che le esportazioni di armi italiane si stanno sempre più spostando nelle zone calde del pianeta (proprio come negli anni 70): Medio Oriente (Arabia saudita, Kuwait, Emirati arabi, Oman, Israele, Qatar, Turchia, Siria) e Asia (Cina, come si è detto, ma anche Malesia, India, Pakistan, Corea del sud, Taiwan).
Senza dimenticare che se nelle classifiche per i grandi sistemi d'arma, l'industria bellica nazionale si attesta attorno al 7°/8° posto, in quella delle armi di piccolo calibro (pistole, fucili, carabine, mitragliatori) l'Italia si pone come il primo esportatore UE e il secondo a livello mondiale, preceduta solo dagli Stati Uniti. Il rapporto "Small arm survey", pubblicato lo scorso luglio, evidenzia come per le "armi leggere" la legislazione italiana non faccia niente per controllare la destinazione reale delle armi, in mano ad un nugolo di intermediari che le fanno arrivare nelle zone calde del pianeta.
Dove c'è guerra, insomma, c'è la mano del capitalismo italiano!
Antonio Ruberti