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Umanità Nova, numero 2 del 23 gennaio 2005, Anno 85

Gli Usa alzano la posta
Dall'Iraq all'Iran e alla Siria?



La guerra in Iraq continua a presentare un saldo negativo per la volontà USA di normalizzare il Medio Oriente e di rimettere in riga le classi dominanti dei paesi islamici. Il totale allineamento di paesi come l'Egitto o l'Arabia Saudita verrebbe messo in questione in caso la guerriglia irachena riuscisse nell'obiettivo di cacciare gli americani dal paese senza che questi ultimi non siano riusciti a rafforzare ruolo e consistenza di un governo iracheno destinato a sostituirli. D'altra parte il costo (umano ma soprattutto finanziario) della guerra inizia ad essere troppo alto per Washington il cui debito con il resto del mondo è enorme. D'altro canto l'unica possibilità perché gli Stati Uniti possano continuare a rastrellare capitali da tutto il globo con i quali coprire il loro deficit interno è proprio quella di configurarsi come padroni imperiali dell'intera economia mondo capitalistica. Una ritirata dall'Iraq avrebbe conseguenze assolutamente nefaste su questo piano per Washington. La situazione dell'amministrazione Bush nel paese asiatico continua, quindi, ad essere critica. Gli attentati in tutto il paese e le imboscate sulle strade che uniscono la capitale del paese alla Turchia e alla Giordania continuano con il ritmo di tre al giorno e segnalano come la resistenza all'occupazione abbia ormai assunto dimensioni e ruolo politico e militare non confinabili ai soli clan più vicini all'ex presidente Saddam Hussein né alla sola confessione religiosa musulmana sunnita di molti di suoi sostenitori. 

Giova ricordare come la guerriglia contro l'occupazione sia nata in Iraq tre settimane dopo la fine della guerra con l'eccidio degli abitanti di Falluja che protestavano contro la mancata riapertura della scuola primaria di un quartiere della città chiusa in quanto trasformata in dormitorio per i soldati americani. Questi ultimi spararono su di una folla disarmata il 30 aprile del 2003 uccidendo almeno 17 persone e ferendone gravemente altre 75 e continuarono nella sparatoria uccidendo una decina di soccorritori e facendo il tiro a segno contro le ambulanze della mezzaluna Rossa. Da quel giorno è stato un crescendo che ha visto prima il moltiplicarsi di cellule della resistenza di ispirazione diversa nell'area dei clan sunniti, poi la nascita di un'opposizione armata tra i clan sciiti dopo il tentativo dell'allora amministratore americano dell'Iraq di mettere a tacere il partito del Mahdi guidato da Moqtada al-Sadr.

Quello che stupisce in tutti questi avvenimenti è che gli Stati Uniti sembrano scegliere sempre forme e modalità di intervento nella realtà irachena le cui conseguenze sono necessariamente quelle che abbiamo visto in questo anno e mezzo di occupazione: la progressiva discesa dell'Iraq nel caos. Gli osservatori critici ritengono per lo più che questo modus operandi sia da attribuire a un mix tra arroganza ed imbecillità che caratterizzerebbe l'amministrazione politica, diplomatica e militare USA, una sorta di "sindrome imperiale".

Ora, pur non escludendo che le componenti citate siano presenti nell'azione dei funzionari USA io sono portato a credere che non sia questa la spiegazione del comportamento delle forze di occupazione americana in Iraq.

La tattica USA: far uscire allo scoperto gli avversari

Gli Stati Uniti hanno elaborato fin dalla Prima Guerra Mondiale una dottrina non ufficiale che ne determina il comportamento tanto diplomatico che militare; tale dottrina si ispira al principio per il quale si deve costringere l'avversario ad agire in modo che la sua azione provochi a questo perdite maggiori di quelle che subirebbe facendo un'altra scelta. I giapponesi furono in qualche modo costretti ad attaccare Pearl Harbor ed a permettere al Presidente Roosevelt di dichiarare guerra da aggredito con la piena solidarietà dell'intera nazione. Allo stesso modo i gruppi islamici e quelli nazionalisti presenti in Iraq alla fine della guerra sono stati indotti ad uscire allo scoperto dalle provocazioni americane mentre inizialmente essi avrebbero preferito aspettare come si sarebbero messe le cose. Costringendoli allo scontro in campo aperto gli USA pensavano di risolvere più rapidamente la questione dei rapporti di forza nel paese e di riuscire a consolidare più in fretta un governo di collaboratori della CIA alla testa dell'Iraq. Allo stesso modo lo scontro con la leadership sciita radicale è stato ricercato in tutti i modi così come in tutti i modi è stato cercato l'avvio di un conflitto civile tra clan sciiti e clan sunniti. Le autobomba a Najaf e a Basra dovevano avere proprio quell'effetto e si deve al sangue freddo dei leader dei partiti sciiti e alla tradizionale commistione all'interno delle tribù più vaste tra clan sunniti e sciiti che questo non sia avvenuto. D'altra parte non è necessario pensare che tali attentati siano stati compiuti direttamente da gente al soldo degli americani. Questi ultimi probabilmente hanno lasciato fare come già altre volte nella complicata storia militare e diplomatica degli ultimi quattro anni. I nemici speculari degli USA, la guerriglia di ispirazione Jihadista con legami internazionali nel mondo della finanza araba, ha un interesse in comune con gli americani: spazzare via la concorrenza islamica locale e quella nazionalista e, soprattutto, cancellare il peso della componente sciita (che essi vedono come eretica) nel paese. A questo scopo una guerra civile lungo la frattura religiosa sarebbe fondamentale come lo sarebbe per gli USA al fine di giustificare la loro presenza in Iraq e spazzare via l'opposizione islamica laica e quella nazionalista. 

La capacità politica della leadership islamica laica sunnita e di quella sciita ha per ora impedito che gli Stati Uniti realizzassero interamente il loro programma ma non ha potuto evitare che il paese sprofondasse sempre di più nel caos e che la guerriglia jihadista araba prendesse piede all'interno dell'Iraq. Il caos e la presenza dei jihadisti sono ad oggi gli unici appigli che l'amministrazione americana può utilizzare per giustificare la presenza dei militari a stelle e strisce nel paese. Inoltre anche la necessità di riconoscere un ruolo politico alla fazione sciita radicale di al-Sadr ha avuto un aspetto favorevole per gli USA grazie alla clausola del disarmo delle milizie del Mahdi da effettuarsi nelle mani dell'esercito del governo collaborazionista Allawi. In questo modo al-Sadr ha di fatto riconosciuto il governo imposto da Washington. 

L'attuale scopo della politica americana in Iraq, dopo il fallimento della pacificazione, è proprio questo: ottenere quanto più tempo possibile per legittimare all'interno e all'estero il governo Allawi, costringere qualsiasi governo sostituirà quest'ultimo in futuro a non abrogare l'ordinanza numero 39 del governatore Bremer che impone la cessione della sovranità del paese in mano alle imprese multinazionali che vi investano, e soprattutto ad accettare la costruzione delle dodici basi USA in Iraq per cui sono stati già stanziati sette miliardi di dollari all'anno.

Per ottenere questi obiettivi è utile che l'Iraq precipiti nel caos, che la disoccupazione tocchi il 30% e che nessuno dei servizi minimi utili allo svolgimento di una moderna vita associata funzioni. Certamente questo porterà una quota sempre più ampia di popolazione a opporsi agli occupanti ma gli impedirà di organizzare decentemente il paese e di svilupparlo in modo indipendente da Washington. Nella situazione attuale di devastazione anche un governo formato da oppositori degli USA sarebbe costretto a trovare qualche accordo con Washington e a concedere come minimo la non ostilità e l'uso delle basi con cui gli Stati Uniti si preparano a controllare il Medio Oriente.

L'Iran nel mirino degli USA

L'equilibrio che gli USA stanno cercando di ottenere con la politica del caos e della distruzione è, però, molto precaria fino a quando esistano paesi e centri di potere potenziali oppositori della normalizzazione dell'area. Per questo Teheran, nonostante l'atteggiamento di assoluta disponibilità assunto verso gli USA a partire dalla guerra in Afganistan, è tornata nel mirino. La recente vicenda del presunto sviluppo di energia atomica al fine di produrre armi atomiche da parte dell'Iran è esemplificativo del tipo di offensiva che gli Stati Uniti stanno mettendo in piedi per arrivare a giustificare un'aggressione armata verso il grande paese asiatico. Prima gli USA e Israele iniziano una campagna di stampa per costringere l'Iran ad accettare perquisizioni dell'Agenzia atomica dell'ONU che si configurano come una vera e propria perdita di sovranità; di fronte all'accettazione obtorto collo da parte dell'Iran delle condizioni poste dagli americani, gli USA alzano la posta ottenendo il risultato di innervosire la leadership iraniana e far sì che ci siano esponenti di quest'ultima che iniziano a rilasciare dichiarazioni scomposte e alla lunga suicide come quella secondo la quale Teheran sarebbe in possesso di missili a media gittata capaci di colpire Israele. Quest'ultimo, nonostante sia l'unica potenza nucleare dell'area, avvia una sua campagna internazionale in quanto pretesa vittima del "complotto antisemita" iraniano. Queste ultime mosse costringono anche i paesi europei, che vantano un ottimo rapporto commerciale con l'Iran, ad adeguarsi e a seguire gli USA e Israele nella loro campagna contro Teheran. Infine, di fronte al raggiungimento di un accordo tra paesi europei ed Iran sul monitoraggio dei siti nucleari del paese asiatico, l'Amministrazione statunitense apre una decisa campagna contro El Baradei, segretario dell'organizzazione ONU per il controllo della proliferazione nucleare e responsabile dei controlli in Iran, accusato di complottare con Teheran e di non essere affidabile. L'effetto è quello di giustificare qualsiasi mossa futura contro il maggior paese non allineato a Washington nell'area dichiarando al contempo non credibili le ispezioni compiute da organizzazioni e membri dell'ONU. In questo modo Washington si leva anche il fastidio di dover dimostrare al resto del mondo la credibilità delle sue accuse: se i controllori internazionali sono corrotti e venduti al nemico, è chiaro che gli USA non hanno bisogno di alcuna giustificazione internazionale per colpire l'Iran.

Il secondo effetto cercato con la campagna contro Teheran è quello di colpire la Russia nel suo tentativo di costruire un asse alternativo a quello Washington-Tel Aviv. Anche gli sciocchi sanno, infatti, che gli strumenti per la realizzazione degli impianti nucleari iraniani vengono da Mosca, che esiste da anni una fattiva collaborazione militare tra i due paesi e che anche sul piano commerciale e tecnologico il rapporto Russia-Iran è molto stretto. Si aggiunga a questo il fatto che in caso di un rafforzamento dei rapporti tra il cuore franco-tedesco dell'Europa e la Russia l'Iran ne beneficerebbe in quanto partner primario sia dei primi che della seconda e come possibile riserva alternativa per i rifornimenti energetici di fronte alla prospettiva di un Medio oriente completamente controllato dagli USA. Infine non bisogna dimenticare il versante geostrategico che ci dice che l'Iran è l'unico ostacolo oramai al consolidamento di un vasto protettorato americano in Medio Oriente e in Asia Centrale i cui confini toccano da un lato l'Egitto, dall'altra i paesi ex sovietici dall'Asia, da un lato l'Azerbaigian dall'altro la penisola arabica e il suo prolungamento nel Corno d'Africa. La conquista dell'Iran metterebbe in mano agli USA l'intera area, consentirebbe l'espulsione di russi ed europei dalla gestione di affari senza la mediazione di Washington e metterebbe gli americani in deciso vantaggio nei confronti dei potenziali concorrenti strategici asiatici, Cina e Giappone in primo luogo, i quali dipendono in modo strutturale dalle forniture di petrolio e di gas dall'area del Golfo e da quella del Caspio.

L'amministrazione statunitense decisa a chiudere i conti anche con Damasco

Un altro paese attorno al quale si sta stringendo la morsa degli Stati Uniti è la Siria la cui leadership si era allineata agli USA fin dalla fine dell'URSS con la partecipazione fattiva alla prima guerra del Golfo nel 1991. Nonostante ciò i siriani hanno continuato a essere percepiti come nemici a Washington soprattutto a causa della loro scoperta volontà di non accettare la perdita definitiva delle alture del Golan occupate da Israele nel 1967. Tale altipiano è del tutto insignificante dal punto di vista strategico alla luce delle nuove tecnologia con le quali Tel Aviv può controllare tranquillamente le intenzioni di Damasco senza aver bisogno di continuare nell'occupazione di quest'area. Sono invece fondamentali dal punto di vista della guerra dell'acqua sotterraneamente in corso da trent'anni almeno nella zona. La ragione per cui Israele non accetta di abbandonare il Golan e la Siria non capitola accentandone la perdita dipende dalla presenza di fonti fondamentali per l'approvvigionamento idrico dei due paesi: è evidente che chi possiede le alture con il loro prezioso contenuto può tenere letteralmente per la gola il vicino ricavandone un vantaggio strategico determinante. L'ostilità mai venuta meno nei confronti di Israele ha impedito l'apertura di un cammino di pacificazione tra USA e Siria anche perché Damasco ha sempre tenuto alla sua indipendenza e al mantenimento di rapporti particolarmente stretti con la Francia. La principale ricompensa concessa a Damasco dagli americani per l'appoggio alla guerra del 1991 fu l'accettazione del ruolo dominante della Siria in Libano. Ora dopo il capovolgimento effettuato nell'area con l'invasione dell'Iraq e con la messa alle strette dell'Iran l'Amministrazione americana sembra decisa a chiudere i conti anche a Damasco. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU su proposta americana ha infatti votato una risoluzione che condanna la presenza militare siriana in Libano, richiede lo smantellamento delle milizie di Hezbollah "colpevoli" di aver costretto l'esercito israeliano a ritirarsi dal Libano meridionale e di quelle presenti nei campi profughi palestinesi e accusa i siriani di aver ispirato il rinnovo incostituzionale del mandato al presidente libanese Emile Lahoud, maronita e cristiano ma fedelissimo di Damasco. A questa risoluzione si aggiunga il tentativo di Israele di provocare incidenti di confine con la Siria come conseguenza dell'uccisione del rappresentante locale di Hamas in pieno centro a Damasco e la stana storia dell'attentato progettato da gruppi islamici non ben definiti contro l'ambasciata italiana a Beirut. Quest'ultima vicenda prende sempre più i contorni del giallo e, benché i media tacciano da molte settimane sull'argomento, sembra che la stessa commissione parlamentare di controllo sull'attività dei servizi sospetti che il tutto sia una montatura concordata tra i nostri servizi segreti e il ministro dell'interno libanese, Elias al-Murr, genero del Presidente della Repubblica, come lui cristiano maronita e uomo incaricato dei rapporti tra Lahoud e gli americani. Il sospetto è che l'Italia, forte dei radicati rapporti tessuti nel paese fin dall'invio di una "missione di pace" nel 1983, si stia prestando ad un gioco costruito dal Presidente libanese per salvarsi sacrificando i palestinesi ed Hezbollah e sperando così di avvicinarsi a Washington e a Tel Aviv senza rompere in modo deciso con Damasco. Il problema è che per la Siria l'espulsione dal Libano vorrebbe dire la virtuale cancellazione del paese dalla politica mediorientale e il suo assorbimento nel sistema neocoloniale a stelle e strisce. A questo punto il regime costruito da Assad e trasmesso in eredità al figlio scricchiolerebbe pericolosamente e il paese diventerebbe facilmente preda di lotte di fazione la cui conclusione sarebbe la diretta dipendenza da USA e Israele dell'ex orgogliosa "Prussia araba". Il particolare più importante di questa vicenda è rappresentato dal fatto che la risoluzione contro la Siria non sia venuta solamente da Washington ma anche da Parigi nonostante che la Francia sia stato il più deciso protettore di Damasco nell'ultimo decennio. La decisione di adeguarsi alla politica americana nell'area deve essere valutata per quello che è: il riconoscimento di una perdita radicale di influenza e di potere nelle aree che un tempo facevano parte dell'Impero francese. In Africa gli USA si stanno sostituendo alla Francia come potenza di riferimento, come partner commerciale e come referente militare; in Marocco, Algeria e Tunisia sta accadendo la stessa cosa e in Medio Oriente l'invasione dell'Iraq ha sancito la marginalizzazione della Francia in tutta l'area. Non si tratta di un evento secondario se si pensa che la Francia fu la potenza che permise ad Israele di avere l'atomica, che consentì all'OLP di avviare una mediazione con gli USA e che fu per un quindicennio il principale amico dell'Iraq di Saddam Hussein in occidente. Negli ultimi quindici anni, poi, aveva preso sotto la propria protezione la Siria abbandonata dai sovietici in via di disfacimento ed era intervenuta a comporre il conflitto tra le fazioni libanesi con una soluzione ben vista da Damasco. La Francia oggi non ha più alcun ruolo autonomo in Medio Oriente e il fatto che gli USA abbiano invaso l'Iraq beffandosi tranquillamente dell'opposizione dell'alleato di Oltre Atlantico ha reso pubblici i rapporti di forza esistenti tra i due paesi e l'intenzione americana di renderli operativi sostituendosi alla Francia in tutto il mondo come potenza di riferimento per regimi filoccidentali locali. A Parigi non è rimasta che una scelta: quella tra la propria progressiva sparizione dai rapporti di potere economici e politici internazionali e l'adeguamento alla nuova situazione assumendo un profilo basso e la posizione di partner inferiore dell'alleato americano. In questo modo i francesi sono costretti a controfirmare ogni scelta di Washington ma in compenso non vengono espulsi dalle aree dove prima erano i reali padroni delle risorse del paese e dell'élite locale. La stessa opposizione alle operazioni in Iraq con il passare del tempo è diventata la foglia di fico dietro la quale Parigi nasconde la sua sostanziale adesione al centro unico dell'imperialismo occidentale. E questo con buona pace di chi ancora crede vi sia spazio per la costruzione di un polo europeo alternativo agli USA e, soprattutto, di chi addirittura lo vedrebbe antagonista a questi non solo per motivi di dominio politico-economico ma anche sul piano dell'etica e dei valori.

Giacomo Catrame

































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