Umanità Nova, numero 2 del 23 gennaio 2005, Anno 85
Fare, di questi tempi, un resoconto sulla debacle del
movimento anti-guerra, proprio in un momento in cui l'Italia è
al top dell'impegno militare, non è semplice, anche
perché, ad essere sinceri, occorrerebbe farlo su tutte le forme
di opposizione sociali e politiche al quadro esistente. E con questo
parlo anche delle componenti rivoluzionarie del movimento:
perché se è vero che i pacifisti, largamente intesi, non
sono stati in grado di creare un sistema efficace di contrapposizione
alla guerra è altrettanto vero che gli anticapitalisti e gli
internazionalisti non sono riusciti a fare di meglio, anzi.
Provo per punti ad analizzare alcune questioni che, a mio avviso, hanno
co-determinato il lento esaurirsi del movimento anti-guerra.
L'assuefazione alla guerra
Innanzitutto l'assuefazione generale, prodotta nel corso degli anni
dalla formazione di mentalità collettive (mass media,
comportamenti socialmente condivisi, modi di pensare, rotture di legami
sociali, consumi collettivi, sensibilità, interiorizzazione di
modelli produttivi etc.) allo stato permanente di guerra: ormai
è un dato comunemente accettato, dai più s'intende, che
il paese nel quale viviamo, possa essere chiamato ad azioni di guerra.
In questo senso c'è stata una rottura profonda con la cultura
post-belllica, formatasi con la tragedia del secondo conflitto
mondiale, per cui la guerra rappresentava l'extrema ratio,
concepibile soltanto in una situazione di aggressione esterna, da cui
l'articolo 11 della Costituzione. Sarebbe troppo lungo dilungarsi sulla
strumentalità politica di alcune posizioni (il PCI di Berlinguer
si sentiva protetto dall'ombrello della NATO tanto per fare un
esempio), ma quello che contava per certo era una modalità di
pensare trasversalmente condivisa, dai democristiani ai comunisti, che
faceva da argine, precario quanto si vuole, ad alcune "degenerazioni"
di sistema. Il primo cedimento collettivo si ebbe nel 1991, con la
guerra del Golfo, dove venne reintrodotto il concetto di "guerra
giusta", a cui corrispose l'astensione parlamentare dell'allora PCI.
Fu, quello di allora, un passaggio sostanziale, che seguiva il crollo
del sistema sovietico e di quello che ideologicamente e simbolicamente
rappresentava anche per coloro che in quel sistema non si erano mai
riconosciuti o che in quel sistema avevano visto una forma aberrante di
capitalismo autoritario di stato. La caduta del piano simbolico che non
afferiva al dato materiale rappresentato, ovvero a ciò che era
veramente l'URSS e i suoi satelliti, rimandava alla caduta della
possibilità di trasformazione radicale della società,
aprendo così un lungo periodo, attualmente in corso, di
insostituibilità del sistema capitalistico a formazione politica
democratico - elettoralistica. Il cambiamento epocale, che chiudeva la
storia di un secolo, coinvolgeva repentinamente le figure della
sinistra storica italiana, che, o chiudevano baracca e burattini (PSI),
oppure correvano come impazziti verso il nuovo verbo
nazional-capitalistico (PCI-PDS-DS, sindacati vari) e guerrafondaio.
Siamo così al 1999, alla guerra in Kossovo, ai massacri gestiti
in prima persona dalla sinistra al potere: la stessa sinistra che poco
tempo dopo (2001) legittimò la guerra in Afganistan,
perché, come disse allora Fassino, qualche risposta bisognava
pur darla. I tabù si erano definitivamente rotti, lo
sdoganamento bellico passava attraverso gli ex-comunisti e veniva
legittimato agli occhi di milioni di persone grazie al lavoro
incessante di convincimento sulla innocenza delle nuove guerre:
umanitarie, chirurgiche e selettive. La chiusura del cerchio stava
nella professionalizzazione dell'esercito, a cui ancora una volta, la
sinistra al potere diede un contributo legislativo e propositivo di
primaria importanza.
Rapido mutamento del sentimento di appartenenza: dalla classe alla nazione
Anche sul piano della percezione soggettiva le cose cambiarono
piuttosto celermente: i sindacati concertativi, con i partiti
governativi contribuirono, insieme ai cambiamenti produttivi epocali
(dislocazioni, maggiore finanziarizzazione dell'economia…), a rompere
sia legislativamente (interinale, apprendistato prolungato, co.co.co…)
che culturalmente la sensazione di appartenenza ad un corpo separato,
antagonista ed irriducibile all'unitarietà nazionale, ovvero
alla classe operaia. Anche questa alterità, riformistica per lo
più, e con tutti i suoi limiti intrinseci, faceva da argine allo
sviluppo bellicistico dell'Italia e dell'Europa in generale: era il
riconoscersi dapprima negli sfruttati degli altri paesi e poi, magari
soltanto calcisticamente (anche il calcio come cultura nazionalistica
di massa ha prodotto dei danni ingenti) nella propria"patria", ma solo
"del pallone". A tutto ciò, nella frantumazione legislativa dei
contratti, negli aumentati precarietà e sfruttamento, si
è aggiunta l'insicurezza personale, la paura per il proprio
futuro. A cascata si può supporre che l'incertezza sia un
potente strumento di manipolazione: mette in competizione
povertà con altre povertà, mette in competizione le
generazioni, fa aumentare la sfiducia verso il prossimo che per prima
cosa diviene un concorrente sociale; se poi il prossimo proviene da
altri luoghi o regioni del pianeta allora costui diventa un nemico. E
questo nemico, allogeno, rivestito di una qualsiasi maschera (Bin
Laden) si trasforma a sua volta in un terrorista, contro cui una
qualsiasi guerra oltre che legittima diviene anche esplicitamente
giusta. Non sarebbe stato possibile un largo consenso passivo alla
guerra in Iraq, nonostante una quantità inimmaginabile di prove
false e di violazioni di regole internazionali mai viste sino ad ora, e
soprattutto emerse prima che la guerra si dispiegasse, se non fosse
stata implicita una condivisione di fondo degli obiettivi, altrettanto
fittizi naturalmente, di guerra al terrorismo. In ultimo si aggiunge
l'afflusso recente sia di una schiera di giovani lavoratrici e di
lavoratori privi di memorie sui diritti minimi acquisiti dalle lotte
dei decenni passati, sia un afflusso di migranti, minacciati dalle
leggi fasciste sul permesso di soggiorno, facilmente ricattabili,
anch'essi memori di altri sfruttamenti, a volte peggiori, perpetrati
nei loro confronti nei paesi di origine, ma completamente scevri, anche
se ci sono importanti "eccezioni" che fanno ben sperare nel futuro (la
manifestazione del 4 dicembre a Roma), dal solo pensare di poter
esercitare una qualche rivendicazione nei confronti dei nuovi padroni.
Il movimento non-movimento degli ultimi anni
E veniamo al movimento che si è creato negli ultimi anni. Il
movimento è nato in gran parte sulla spinta mediatica del 1999 e
probabilmente da questa spinta non è mai uscito. È
già difficile chiamare delle forti mobilitazioni di massa un
movimento, quando queste mancano di due elementi fondamentali per
potersi ritenere tale:
- La prima riguarda la continuità delle proprie attività
e non la loro estemporaneità. Un movimento può avere
degli alti e dei bassi ma non essere a singhiozzo, con interruzioni
temporali lunghe ed a volte lunghissime.
- La seconda attiene le ricadute politiche sia sul piano dei risultati
concreti sia sull'innesco di lotte locali più o meno parziali a
traino delle mobilitazioni generali. La concentrazione su eventi di
massa a scadenze predeterminate non ha favorito né lo sviluppo
né un radicamento sociale e locale delle lotte.
Mancanza di senso programmatico e "recupero" istituzionale
Il legame intrinseco e non estemporaneo alla produzione di eventi
visibili ha, alla lunga, svuotato di senso "programmatico" una
realtà che in maniera positiva e significativa aveva ripreso in
prima persona, con due milioni e mezzo di contraddizioni, a porre
questioni essenziali sulla sopravvivenza propria e del pianeta. Senza
aver attecchito sul piano sociale, il movimento, di natura
prevalentemente democratica (non poteva che essere così, e non
lo dico in senso negativo), manteneva a fatica un'autonomia dal quadro
politico istituzionale ed in particolare da quello che comunemente
potremmo chiamare opportunistico. Più perdeva di presa,
più si allargava a coloro che ne vedevano soltanto uno strumento
di rilancio della propria immagine sbiadita se non ancora interamente
impresentabile. Ed è grazie al movimento, o questa enorme massa
di intergruppi della vecchia e nuova sinistra, che vengono "sdoganati",
suo malgrado e senza garanzie, i guerrafondai di prima, di poco prima.
Guerrafondai, tra l'altro, mai pentiti o revisionati, pronti, alla
bisogna, all'invio di nuove e lussureggianti truppe in giro per il
mondo, o, indisponibili, a ritirarle da quei luoghi di guerra, che non
posso che essere che luoghi di guerra ingiusta: Kossovo, Afganistan,
Africa etc. I Social Forum, sia locali che nazionali, a parte qualche
piccola eccezione, si sono lentamente ristrutturati in fiere
campionarie dei partiti della sinistra, di stampo verticistico, con
veti incrociati, discussioni blindate, o ancora peggio, in scatoloni
vuoti da riempire soltanto quando la sigla di partito non è
spendibile in forma diretta. L'ultimo Social Forum londinese ha
introdotto, insieme ad altre chiusure "democratiche", una selezione di
classe alla propria partecipazione, chiedendo il pagamento di un
biglietto esosissimo (dalle 30 alle 50 sterline) per assistere ad
alcuni dibattiti.
L'autoreferenzialità degli anticapitalisti
Quella parte di realtà, invece, che si richiamano a prospettive
di tipo anticapitalistico non sono riuscite, in tutto questo tempo, a
rappresentare una reale alternativa sia in termini numerici, ridotte a
volte ai minimi termini, sia nei presupposti di programma che di
credibilità. Anche qui un coacervo di sigle spesso più
imperniate nella critica sterile di ciò che facevano gli altri,
per poi magari scimmiottarne in peggio alcuni comportamenti, ha portato
a forme di autoesclusione rissosa e improduttiva una miriade di gruppi
presenti sia in Italia che nel resto del mondo. Ma di questo
occorrerebbe parlarne a parte.
Le difficoltà del movimento anarchico
Il movimento anarchico, nel suo complesso, e soprattutto nelle sue
componenti sociali ed organizzate è riuscito parzialmente nei
suoi intenti: da una parte a partecipare alle grandi mobilitazioni
contro la guerra indette dai social forum nazionali ed europei e
dall'altra ad organizzare in proprio alcune manifestazioni (La Spezia,
Livorno, Mestre) e mobilitazioni particolari come quelle di
contestazione per il 4 novembre, i campeggi antimilitaristi ed altre
iniziative a carattere locale (coprire le vergogne del militarismo, con
coperture di statue inneggianti alle forze patrie, o cambiando il nome
alle vie dedicate a regnanti, militari etc.). Di fatto però
anche il nostro movimento non è mai riuscito, vuoi per i numeri
ridotti, vuoi per incapacità di imprimere una continuità
sostanziale a certe azioni e lotte a diventare un punto di riferimento
delle battaglie antimilitariste. Anche noi, in parte condizionati da
scadenze imposte o promotori di iniziative altrettanto scadenzate, in
maniera rituale, a cui sono aggiunte le "stanchezze" politiche di
questi mesi (inefficacia delle azioni intraprese, quadro generale
deprimente, lotte sociali inconcludenti etc.) paghiamo il dazio di un
periodo più o meno lungo di attivismo forzoso. Inoltre, per
fortuna, molte tematiche e pratiche nostre sono diventate comuni a
molti, come l'azione diretta, l'orizzontalità decisionale, il
federalismo organizzativo ed alcune impostazioni che alla radice
andavano a colpire la questione bellica, ovvero il sottosistema
militare, economico e politico degli stati e del capitalismo, quello
che per noi, in definitiva, è l'attività antimilitarista.
Tutto questo è avvenuto proprio quando lo stesso movimento
anarchico, in origine portatore di tali pratiche, è stato quello
meno in grado di "rappresentarle", anche solo simbolicamente, rispetto
ad altri, più decisi da una parte, e più votati al
martirio mass-mediatico dall'altra.
Antimilitarismo e lotte sociali
Abbiamo infine cercato, ed è proprio da qui che dovremmo
ripartire, di connettere le nostre iniziative con il mondo piccolo, ma
combattivo, dei lavoratori in lotta, sapendo che è nella
produzione il luogo dove il sistema crea il maggiore livello di
sfruttamento, anche ambientale, ed è nella produzione che il
sistema soffre degli attacchi di coloro che non si sottomettono al
dominio globale. Sappiamo bene che se nelle scuole, nei centri per
l'impiego, nelle fabbriche, nelle poste, nelle università… la
cultura militare trova la stessa cittadinanza di un qualsiasi prodotto,
la normalità della guerra come ulteriore sviluppo sarà da
considerarsi cosa data. Così come sappiamo che se lavoratori e
le lavoratrici delle comunicazioni virtuali (internet…) e reali (treni,
navi, autostrade…) non saranno essi stessi promotori di lotte volte al
boicottaggio attivo delle guerre e delle produzioni militari,
difficilmente un movimento esterno sarà in grado di farlo con
altrettanta efficacia. Come, per finire, sappiamo bene che se le
lavoratrici e i lavoratori dei sistemi di produzione d'arma non
iniziano a mettere in discussione ciò che fanno nei termini
radicali della scelta, difficilmente le basi sociali della guerra,
anche come fonte di reddito, potranno essere cambiate. Dobbiamo
ripartire dalle lotte sociali, quindi, come elemento fondante anche del
nostro antimilitarismo cercando il più possibile di costruire
alleanze non estemporanee con settori politici e sociali a noi affini
per contenuti, modalità di lotta e finalità politiche.
Pietro Stara