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Umanità Nova, numero 3 del 30 gennaio 2005, Anno 85

Iraq: gli USA attizzano il fuoco
Urne e sangue: export di democrazia



L'espressione "esportare la democrazia" suona strana, e non solo per via della spontanea assimilazione a una merce, applicata a un valore supremo, come dice Bush, o per meglio dire a una pratica che valorizza alcuni specifici, precisi e selezionati rituali sociali.

Per noi europei, ormai assuefatti a procedure talvolta pedanti e noiose, quanto indifferenti ai contenuti che veicolano (la pena di morte è democraticamente applicata, per fare un esempio), la memoria storica ci invita a considerare come il regime democratico si sia affermato nel tempo dopo la conquista di spazi di libertà codificati in diritti, relativi a persone, posizioni sociali, beni individuali. Habeas corpus (prerogativa di intangibilità del proprio corpo di fronte alla pretesa di vita e di morte del sovrano assoluto), libertà di parola e di organizzazione, diritto di proprietà privata, ad esempio, sono frutto di secoli di conflitti sociali, non solo entro le mura delle fortezze sovrane, che hanno prodotto uno stato di diritto liberale che poi si è evoluto, man mano che le istanze libertarie in senso lato crescevano, in procedimenti partecipativi codificati nei regimi democratici.

Chi più, chi meno, chi più velocemente, chi può lentamente, gli stati nazionali europei sono nati così ed oggi le democrazie ne sono gli eredi storici. Anche laddove la democrazia si è imposta sin da subito, come nella Costituzione statunitense del 1776, occorre ricordare che tra l'idea di esportarla oltre Atlantico da parte dei Pilgrim Fathers sino al suo compimento con le leggi antidiscriminatorie di Johnson negli anni '70 del secolo appena terminato, sotto l'onda lunga del 1968, di Martin Luther King e di Malcolm X, ci sono sempre voluti secoli prima che i diritti civili, politici liberali e la partecipazione collettiva pure irrigidita nei riti elettorali del regime democratico si ricongiungessero in un unico ordinamento nazionale (addirittura multinazionale, come nel caso americano).

In altri termini, un regime democratico va assimilato non solo e non tanto nelle sue tecniche di ingegneria costituzionale e quotidiana - l'equilibrio tra poteri separati e indipendenti - ma soprattutto nell'interiorizzazione di un vivere bene ordinato (si fa per dire) della società civile e politica nel suo complesso che ha per precondizione una serie di conflitti sociali su poste quali la libertà di espressione, di stampa, di opinione, di organizzazione delle proprie idee, di confronto orizzontale sia nell'ambito più specificamente politico (partiti, parlamenti, ecc.), sia e di più nei vari microcosmi sociali (famiglia, lavoro, ecc.), in cui la parità tra individui non sia uno slogan ma una pratica consolidata.

La "democrazia" al tempo della guerra di civiltà

Non che alle società arabe siano precluse tali condizioni, ma certo è difficile immaginare un trapianto ex novo dopo secoli di colonialismo regressivo e dopo decenni, nel caso iracheno in questione, di dittatura di Saddam. E la recente, epocale, svolta religiosa nel mondo - da Khomeyni a Bush, praticamente - propende per un indebolimento di quelle precondizioni di libertà strappate con la lotta, in quanto la secolarizzazione del proprio destino individuale, connesso alla libera scelta frutto del libero arbitrio, mal si adatta a concezioni trascendentali della vita in cui è dio, qualunque nome porti, a chiamarci alla vita, a tracciare il nostro percorso biografico, a guidarci nei meandri esistenziali e, a fine tragitto, decidere quando staccare la spina. E per giunta non direttamente, ma attraverso i propri rappresentanti (non eletti) in terra.

Eppure la missione di civilizzazione pacifica di un Iraq democratico è alle fondamenta dei tempi attuali. Questo non significa solamente malafede, visto che una intelligenza media dei decision makers occidentali riesce a svolgere esattamente, anzi con migliore esaustività di argomentazioni, quanto da me accennato in poche righe poco sopra. Allora è facile pensare che il trucco dell'esportazione della pratica democratica in un contesto in cui le libertà civili e politiche siano minate, letteralmente, da un conflitto armato in corso, cruento come non mai, anzi come sempre, ma anche da una assenza di precondizioni democratiche che fanno dell'Iraq ipoteticamente post-elettorale uno stato di non-diritto senza tante discussioni, nasconda una tattica che dissimuli qualcos'altro. Non basta, infatti, registrare tanti candidati, tanti partiti, tanti poster elettorali, un buon numero di emittenti televisive che trasmettono spot, per rendere accettabile una campagna elettorale a macchia di leopardo, impraticabile in qualche luogo, assente in altri, il che la renderebbe annullabile se accadesse dalle nostre parti (dove si sciolgono consigli comunali per collusioni mafiose che poco hanno a che spartire con la guerra quasi civile in corso tra il Tigri e l'Eufrate).

Anche il dilemma che i governanti belligeranti fronteggiano sa di falso dilemma: tutti sanno che condurre elezioni minimamente serie in clima di guerra è impossibile; eppure rinviarle significherebbe darla vinta ai terroristi (chiunque siano, dai combattenti di Al Qaeda all'esercito a stelle e strisce). Ma il 30 gennaio, tranne sconvolgimento dell'ultimo momento, qualche iracheno andrà a votare, non si sa dove e come. Si tratta di un escamotage per avviare la fase di uscita onorevole senza perdere la faccia, come sostengono i commentatori? In linea con quanto argomentato sopra, a me sembra che tale situazione dilemmatica sia coerente con un altro quadro della situazione, probabilmente ben chiaro sin dall'inizio ai decision makers oltre Atlantico.

Attizzare il fuoco tra sciti e sunniti

Il caos iracheno prossimo alla guerra civile tra sunniti e sciiti, attizzato da secoli sia dal mondo musulmano, sia dalle potenze coloniali di un tempo, e oggi all'ordine del giorno in funzione antiraniana (nonostante gli sciiti iracheni abbiano dimostrato a più riprese autonomia da Teheran, pure nel corso della guerra decennale degli anni '80 che li videro schierati con Saddam e contro Khomeyni) destabilizza una intera regione in modo permanente. La trasversalità di tali fedi alla struttura clanica tradizionale che ancora conta nel paese funge da elemento di resistenza al progetto di imbarbarimento voluto nell'attimo in cui si è scatenata la guerra contro Saddam. Tuttavia un conflitto cruento sconvolge anche le basi sociali, specie se prolungato nel tempo e fiaccando le risorse di autosussistenza delle collettività e di autoperpetuazione delle elite tribali, sino a scardinare l'ordine tradizionale e finendo col subire il fascino non disinteressato delle sirene fondamentaliste che cumulano, per così dire, i vantaggi di un ordine comunitario ferreo con una gerarchia di valori sorretti da una fede armata, in senso letterale, sia contro i laici interni, sia contro i nemici esterni, come una sorta di prestato sovrano speculare all'ordine internazionale vigente.

L'impostura democratica

Le elezioni, comunque vadano e quando avvengano, non riusciranno a pacificare una nazione, sia per le ragioni sopra esposte, sia perché la guerra continuerà per i prossimi anni, quelli necessari a porre un altro tassello nel disegno di predominio americano sul pianeta. Ragioni geopolitiche sovraordinano questioni di controllo geoenergetico per le rivali potenziali statunitensi (Cina in testa) e si intrecciano con altri scenari in altre aree del pianeta (per dire, la Russia accerchiata sia sul versante asiatico, con le basi americane di controllo e spionaggio nelle steppe, sia sul versante caucasico e europeo, Georgia e Ucraina), in cui anche cataclismi concorrono ad essere utilizzati per quel connubio umanitario-militare che prolunga la mano ferrea del predominio mondiale, come è tipico di questa fase a cavallo di millennio.

In ultima analisi, lungi dall'utilizzare, comunque vada, la sorte democratica e pacificata dell'Iraq di Allawi (oggi), gli iracheni sono destinati alla guerra civile destabilizzante perché tale è l'obiettivo strategico di chi ha voluto la guerra, dissimulando questa tessera del mosaico dietro slogan ad uso dell'opinione pubblica distratta e ammansita da reality show e quiz adatti a ribadire simbolicamente i privilegi della parte ricca del pianeta, chiamata a pagare qualche piccolo prezzo in fatto di sangue pur di rafforzare l'esproprio selvaggio che la cattura del resto del mondo comporta ai danni della maggioranza della popolazione della terra. 

Insomma, il modello di apartheid feroce, dal Sudafrica alla Cisgiordania, sembra rappresentare al meglio la strategia vincente di una fazione fondamentalista dell'elite del mondo che, da destra e da sinistra dell'arco parlamentare (Blair incluso, quindi), ha in mente di conservare a tutti i costi (altrui) il potere contro la maggioranza. Il che significa come l'impostura democratica, che gli anarchici hanno da sempre denunciato nell'ambito degli ordinamenti nazionali (partecipazione fittizia, mobilitazione a comando, delega di poteri, ecc.), si riveli, in forme peraltro sempre più tragiche, su scala planetaria come sigillo di un dominio da abbattere.

Salvo Vaccaro


































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