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Umanità Nova, numero 3 del 30 gennaio 2005, Anno 85

L'incoronazione di Bush II
In nome di dio e del profitto



Ci mancavano solo le note del Messia di Händel e il risultato sarebbe stato perfetto: l'America buona, ispirata, compassionevole, amante della libertà e dei diritti dei popoli, quella, per capirci, cara ai film hollywoodiani, si presenta al mondo con gli stivali texani del suo pio presidente per rilanciare al mondo intero il senso della missione che Dio, proprio quello con la D maiuscola, ha affidato agli Stati Uniti. Se tutto ciò non fosse la tragica pantomima che sappiamo, ci sarebbe pure da sorridere.

Non poteva essere più spettacolare, infatti, oltre che più dispendiosa, la "solenne" cerimonia di investitura, le seconda, del presidente Bush. E non poteva essere anche più accattivante, e ambigua, per via dello spiccato senso dello spettacolo, caratteristico del popolo americano, utile a sublimare nel trionfo di un immaginario collettivo rassicurante e buonista, la durezza e la crudeltà di una realpolitik quanto mai aliena dai valori assoluti così impropriamente evocati quest'ultimo 20 gennaio.

E in effetti c'è tutta l'America, con le sue grandezze, le sue miserie e le sue contraddizioni, nel discorso che il "cristiano rinato" Michael Gershen ha scritto e che il presidente Bush, anche lui "cristiano rinato", ha letto davanti all'immensa folla radunatasi alla Casa Bianca. Un'America profonda, bigotta, conservatrice, isolata e isolazionista, orgogliosa del proprio potere e timorosa di fronte ad ogni diversità, un'America aggressiva e incapace di mediazioni, e al tempo stesso ispirata da una voce divina che le impone di portare il suo verbo al mondo intero, un'America consapevole della propria enorme potenza, ma ancora profondamente scossa dalla vulnerabilità esplosa l'11 settembre, un'America quanto mai determinata a riaffermare il proprio dominio su un mondo "liberato" dal comunismo, ma non ancora dal terrorismo, un'America, soprattutto, talmente convinta della propria superiorità morale, nonché politica ed economica, da sentirsi legittimata a uniformare il mondo secondo i suoi fini e i suoi criteri. E il problema sta proprio in questo, perché i fini e i criteri dell'imperialismo americano ben li conosciamo.

C'è chi si è divertito a contare, nel discorso presidenziale, gli innumerevoli riferimenti a dio, e chi quelli ancora più numerosi alla libertà. Chi venisse da un mondo alieno senza nulla conoscere della realtà da cui nasce questo "storico" discorso, potrebbe pensare di trovarsi di fronte a una sorta di profeta, chiamato a condurre il suo popolo alla santità e a fare del suo paese un paradiso in terra. Perché tale è l'immagine complessiva che ne esce, quella di una paese miracoloso abitato dalla crema del genere umano, dove a farla da padroni sono i valori della libertà, della fede e della solidarietà, e dove "nessuno ha il diritto di essere il padrone e nessuno merita la schiavitù". Insomma, un paese che "deve diffondere la democrazia in ogni nazione e ogni cultura".

Beh, a parte il fatto che qualcuno potrebbe giustamente obiettare che non è che nella società americana non esistano padroni e schiavi, a parte questa, dicevo, che può essere considerata solo come folcloristica demagogia, ben più preoccupante, invece, per i destini nostri e del mondo intero, è il dichiarato proposito di esportare la american way of life in ogni angolo del globo. Perché, al di là della condivisione o meno dei fini e dei valori a cui si richiama l'entourage del presidente, sono i metodi abitualmente impiegati per imporre la democrazia, a spaventarci.

Da parte dei più autorevoli quotidiani statunitensi si è rimproverato a Bush, oltre all'astrattezza e all'immodestia delle sue parole, anche il fatto che in tutta la sua prolusione non sia stato nominato una sola volta l'Iraq. Per non parlare dell'Afganistan. Ovviamente non si è trattato di una dimenticanza, ma della volontà di fornire al popolo americano, e di conseguenza al mondo intero, un'immagine del paese e della sua classe dirigente corrispondente a quel quadretto idilliaco di pace e libertà di cui si diceva. E tirare fuori in una simile e solenne occasione storie come i massacri iracheni ed afgani, tanto per citare solo gli ultimi, o le torture di Guantanamo e Abu Ghraib, sarebbe stato quanto meno di cattivo gusto. E di cattivo gusto, fra i cappelli texani e le decine di preziosissime pellicce sfoggiate dalle potenti signore presenti, sul palco presidenziale ce ne era decisamente già abbastanza.

Più volte su queste pagine abbiamo parlato, denunciandole, delle nefandezze dell'imperialismo americano, e abbiamo cercato anche di capire le dinamiche attraverso le quali si muove la strategia di dominio del colosso statunitense. Abbiamo detto di Rumsfeld e Rice, di Cheney e newcons, di generali e armamenti, di petrolio e colpi di stato, e non è necessario ora riepilogare i mille motivi che ce ne fanno irriducibili avversari: difficilmente potremmo aggiungere qualcosa a quanto già detto. Quello su cui in questa occasione ci interessa riflettere, piuttosto, è su come la società americana nel suo complesso, fatte salve le risibili differenze fra repubblicani e democratici, sia disponibile ad accettare di sé, e quindi a introiettare e poi esportare, quell'immagine estremamente "positiva" di cui ha cianciato il suo presidente. Evidentemente la percezione che il popolo americano ha del proprio paese e del ruolo che è chiamato a svolgere coincide, nel grande e nel piccolo, con la visione salvifica e moralmente superiore evocata dallo sguardo ispirato e rivolto all'incommensurabile che ha caratterizzato l'espressione generalmente stolida e bovina di Bush. Una percezione frutto di una società "splendidamente" isolata e sostanzialmente ignorante del resto del mondo (come dimenticare che il suo presidente fino al 1999 credeva che i Talebani fossero un complesso rock?), ma che proprio per questa sua inconsistenza può diventare il facile strumento di chiunque sia disposto a solleticarla. E di ciò, infatti, ne è ben consapevole quella cricca di petrolieri, affaristi, speculatori e volgari politicanti che tutte le mattine, prima di andare a svolgere il suo sporco lavoro, si ritrova in preghiera davanti alla Casa bianca. Dio ce ne scampi dai predicatori ispirati e in odore di santità!

Massimo Ortalli 


































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