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Umanità Nova, numero 4 del 6 febbraio 2005, Anno 85

Gabbia democratica
Nell'urna irachena



Appena chiuse le urne, il coro di politici e giornalisti appare unanime: le elezioni del 30 gennaio 2005, invano ostacolate dal terrorismo, rappresentano un'importante affermazione della democrazia. Parole che riecheggiano conformi le parole pronunciate da Bush II: "Il mondo ode la voce della libertà che viene dall'Iraq e dal Medio Oriente".

Subito sono state fornite più o meno credibili percentuali relative ai votanti, da un iniziale 75% si è successivamente passati ad un 60% degli elettori iscritti nelle liste, senza avere la possibilità però di conoscere il dato complessivo relativo a quanti iracheni si erano iscritti a tali liste sui 14 milioni di potenziali elettori aventi diritto. 

Il governo provvisorio da parte sua aveva previsto una partecipazione non inferiore al 65%; comunque l'astensionismo non può essere spiegato solo con la paura degli attentati che, nella giornata delle elezioni, non sono stati più numerosi e sanguinosi di quanto lo siano in media ogni altro giorno.

La scarsa attendibilità dei dati sull'affluenza alle urne anticipati dalla Commissione elettorale è confermata dal fatto che questa si è presa tempo sino al 20 febbraio per rendere noti i risultati definitivi, con le percentuali conseguite dalle varie formazioni partecipanti (256) e dagli oltre 10 mila candidati, con l'assegnazione dei 275 seggi componenti l'organismo incaricato di nominare il Consiglio di presidenza e di redigere la bozza della nuova costituzione.

D'altra parte la credibilità di quanti gestiscono l'informazione dall'Iraq non è complessivamente degna di credibilità.

Gli stessi media e gli stessi commentatori internazionali che oggi descrivono con solerzia le elezioni in Iraq sono quelli che, nel novembre scorso, non sono stati in grado di registrare le decine di migliaia di vittime tra la popolazione civile di Falluja, risultato dell'impiego da parte delle forze Usa di armi di distruzione di massa quali napalm, gas tossici e bombe a frammentazione. E, in Italia, sono gli stessi che hanno coperto le centinaia di morti civili causati dal fuoco italiano a Falluja durante la poco gloriosa "battaglia dei ponti" e che, dopo la morte in combat action di un mitragliere elicotterista italiano, hanno alimentato la falsa commozione e l'oscena retorica di Stato, parlando senza pudore del barbaro assassinio di un "costruttore di pace".

Appare invece del tutto azzardato affermare che queste elezioni sotto lo stato d'assedio sono un passo in avanti verso la stabilizzazione del paese, né tanto meno si può sostenere, come invece hanno fatto i capi governo degli Stati militarmente presenti in territorio iracheno, che i votanti hanno in qualche modo avallato con la loro scheda l'occupazione Usa. Infatti non esiste gruppo o partito, aldilà della propria appartenenza etnica o religiosa, che non abbia messo tra i primi punti del proprio programma politico di governo la fine dell'occupazione straniera. Tra i partiti che, prevedibilmente, otterranno i maggiori consensi vi sono l'Alleanza degli Iracheni Uniti, rappresentante la maggioranza sciita, l'Unione del Popolo (promossa dal Partito Comunista Iracheno) e la lista per l'Alleanza Curda. Le altre formazioni più significative appaiono: la Lista Irachena, guidata dal primo ministro ad interim Iyad Allawi, comprendente sciiti (in maggioranza) e sunniti; il Partito Iracheno, composto sia da sunniti sia da sciiti si sono opposti agli attacchi Usa contro Falluja e Mossul; l'Assemblea dei Democratici Indipendenti, in grado di raccogliere il sostegno di intellettuali e borghesia urbana; il Partito Nazional Democratico appoggiato da una parte della borghesia sunnita, e la Lista Nazionale Rafidain, riferimento della minoranza cristiana. Tutti comunque, aldilà delle differenze, per ottenere un minimo di consenso popolare dovranno quanto prima mettere all'ordine del giorno il ritiro dei contingenti militari e la difesa degli interessi economici nazionali legati al petrolio, oltre ad un immediato miglioramento delle misere condizioni di vita.

Un programma difficile da realizzare per qualsiasi governo, dato che già i vertici Usa preventivano almeno altri due anni di permanenza delle truppe della coalizione in Iraq, con l'alibi di garantire lo sviluppo democratico e la ricostruzione.

Anche a costo di sospendere la democrazia, sterminare i resistenti e bombardare ogni città non asservita.

Z. F.



































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