Umanità Nova, numero 5 del 13 febbraio 2005, Anno 85
I riti elettorali nelle nazioni a consolidata democrazia parlamentare si prestano a considerazioni, per molti versi, banali.
Che lo scontro fra forze parlamentari non abbia nulla a che fare con
una scelta di modello di società è assolutamente evidente
come è evidente che le diverse frazioni del ceto politico siano,
almeno in parte, interscambiabili.
Basta, a questo proposito, pensare, restando in Italia, ai radicali che
hanno proposto la loro alleanza alla destra ed alla sinistra e che non
sono stati cacciati a pedate né dagli uni né dagli altri
nonostante siano, sul piano sociale, estremisti liberali di destra e,
su quello del tipo di "civiltà" proposto incompatibili, in linea
di principio, con cattolici e fascisti.
Che le passioni elettorali tendano, col tempo ed in maniera
irreversibile, a scemare è altrettanto evidente come dimostrano,
sul piano quantitativo, il calo degli elettori e, su quello
qualitativo, il trasformarsi della propaganda elettorale in
pubblicità.
Lo stesso partito politico di massa novecentesco, che in Italia aveva
tenuto un paio di decenni in più rispetto ad altre nazioni
europee, è un ricordo.
Certo i DS ed il PRC mantengono una consistenza associativa
rispettabile ma non hanno molto a che vedere con il vecchio PCI con il
suo radicamento capillare e la sua capacità di essere il perno
di un'intera area sociale strutturata in sindacati, associazioni,
cooperative, apparati amministrativi strettamente intrecciati.
Altrettanto si può dire della DC del cui tradizionale impianto
resta solo, con radicamento comparabile, Comunione e Liberazione che
è, però, essenzialmente una realtà lombarda che si
esprime politicamente come corrente di Forza Italia, appunto, in
Lombardia mentre, in altre regioni, è disposta ad alleanze
trasversali.
Oggi le burocrazie sindacali, sebbene mantengano evidenti legami
partitici, si pongono come forza relativamente autonoma così
come fanno quelle grandi imprese – trenta delle cento principali
aziende italiane e anche nel gruppo di testa sono fra le più
forti - che ancora si chiamano cooperative.
Basta, tornando all'impatto sulle modalità della propaganda
elettorale di queste mutazioni, rilevare come, con qualche eccezione,
la campagna elettorale punta sul candidato e non sul partito e come la
pubblicità valorizzi non tanto il programma quanto alcune
promesse generiche che possono attrarre elettori di qualsivoglia
orientamento.
Se dovessimo cercare contese elettorali di una qualche rilevanza
dovremmo guardare a vicende come quella recente dell'Ucraina che
è il prosieguo di una serie di "rivoluzioni dolci" gestite dai
servizi americani ed europei nell'area centro orientale del continente.
In questo caso, quando le elezioni rendono visibile il fatto che la
politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi, le
elezioni stesse sono un evento, provocano passioni, suscitano
attenzione non perché rapprendano una presunta volontà
popolare ma perché si collocano nello scontro geopolitico fra
potenze (partito occidentale contro partito russo nel caso ucraino). In
fondo, fatte le dovute proporzioni e differenze, questa vicenda ricorda
lo scontro fra comunisti e democristiani in Italia nei decenni passati
ed i rispettivi legami al blocco sovietico ed a quello americano.
Proprio il minimo di "sovranità popolare" intesa come
possibilità di autodeterminare scelte interne al "proprio" paese
carica lo scontro elettorale di significato simbolico.
Con maggior prudenza, considerazioni analoghe potrebbero essere
fatte per le elezioni irachene, esempio evidente di un passaggio
obbligato nella legittimazione dell'intervento americano e delle
contraddizioni che si trova ad affrontare.
Ma dove, come nel caso italiano, non è in gioco la collocazione
internazionale dell'Italia e le elezioni decidono solo chi dovrà
governare una nazione di limitata rilevanza, nulla di tutto ciò
è all'ordine del giorno.
La campagna elettorale è quindi, nella misura in cui lo
è, interessante come espressione della cultura del ceto politico
e del suo modo di rapportarsi al corpo sociale.
Per grandi linee, è possibile individuare alcuni percorsi.
Berlusconi fa l'americano, dopo aver sistemato i rissosi alleati
La destra, dopo che il suo azionista di riferimento, ha, sembra,
messo, pagando il dovuto, la mordacchia a fascisti e democristiani,
sembra intenzionata a condurre una campagna elettorale all'insegna
dell'anticomunismo puro e duro. Mi è capitato di ragionare con
degli amici e dei compagni sulla stranezza di una scelta del genere. A
rigore, i cosacchi in Piazza San Pietro ci sono già stati ed
hanno cantato per il Papa e non sembra plausibile che la paura di un
nemico inesistente possa portare molti consensi. A questo proposito, si
possono fare due ipotesi, non necessariamente inconciliabili:
- l'imitazione servile del modello americano. Se Bush ha vinto le
elezioni puntando sui valori religiosi e sulla guerra contro il male e
se questi valori sono a basso costo (qualche mancia alle sette
protestanti i repubblicani l'avranno pur data) perché non
provarci anche in Italia? Ci sarebbe il fatto che in Italia manca la
fascia della Bibbia e, per di più, che le due torri non sono a
Milano ma, dopo aver chiamato i presidenti dei consigli regionali
governatori ed essersi fatti riprendere con la mano sul cuore,
può darsi che i nostri se lo siano dimenticati;
- un esperimento fatto in occasione delle regionali, pronti a cambiare
spartito se non funziona. Lo stessa pubblicizzazione delle
attività caritatevoli del cavaliere azzurro, che potrebbe
apparire come una forma di sgradevole esibizionismo, si potrebbe
spiegare in questa prospettiva: vediamo se il conservatorismo
compassionevole, che negli USA va alla grande, può funzionare
anche in Italia, se non funziona inventeremo qualcos'altro.
Vi è, in ogni modo, in questa scelta una dimensione meno
contingente. La destra non può più fare troppe promesse,
si è ridotta a spiegare che il declino italiano deriva da una
situazione internazionale sciagurata (sempre le due torri, portassero
male?) e deve trovare un altro discorso centrato sui cattivi di turno.
Per evidenti motivi non osa puntare sull'antislamismo e utilizza
l'anticomunismo nella speranza di recuperare a basso costo almeno i
voti degli ultrasessantenni.
Detto ciò, che la destra sia tutt'altro che pacificata al proprio interno si comprende:
- dalla rivolta dei governatori. Se Storace ha potuto rivendicare il
proprio essere postfascista e non italoforzuto, Formigoni ha dovuto
fare un passo indietro ma è chiaro che il settore di Forza
Italia che fa riferimento a lui sta preparando la transizione alla fase
postberlusconiana così come stanno facendo i dirigenti di AN,
ognuno nelle proprie aree di influenza;
- dal correre in proprio di una Lega Nord che accentua le proprie
posizioni protezioniste, populiste, xenofobe sia per marcare la propria
differenza rispetto alla destra civilizzata che per rinsaldare la
propria base sociale ed elettorale;
- dall'arditezza dei tentativi di allargare l'alleanza. Quando si tenta
serenamente di imbarcare sia Alessandra Mussolini col suo codazzo di
fascisti di stretta osservanza che Giacinto, detto Marco, Pannella, si
evince che qualcosa non funziona.
Il "realismo" bertinottiano
La sinistra, sul piano della costruzione di un blocco antiberlusconiano, sembra aver fatto dei significativi passi in avanti.
Per un verso, è riuscita a tenere dentro l'Udeur del
simpaticamente gaglioffo Clemente Mastella, per l'altro a recuperare il
PRC. Un bell'esercizio di pluralismo, è innegabile.
È evidente che la svolta ulivista del PRC rappresenta un momento
di rilevante modificazione della geografia interna della sinistra
statalista.
Si tratta, infatti, della presa d'atto, da parte della parte più
lucida del gruppo dirigente del PRC del fallimento del tentativo di dar
vita ad una sorta di terzo polo e della necessità, volendo
giocare le proprie carte, di un accordo con il centrosinistra.
Una presa d'atto dolorosa per le componenti del PRC legate ad
un'identità, in qualche modo, dura e pura. Ma se i
neotogliattiani ed i veterotrotskisti del PRC hanno ragione quando, da
destra e da sinistra, accusano il gruppo dirigente bertinottiano del
partito di essere una mosca cocchiera della sinistra e di fare scelte
politiciste, hanno torto nell'essenziale e, in altri termini, quando
pensano di poter fare un parlamentarismo "rivoluzionario".
La svolta bertinottiana, svolta, mi si consenta il gioco di parola,
disinvolta quanto si vuole, ha il pregio di liquidare le sciocchezze
estremiste che caratterizzano i settori più nostalgici della
sinistra statalista. Bertinotti, da animale totus politicus, ha colto
l'essenziale e in pratica il fatto che la sinistra può, non
è scontato ma può, vincere le elezioni, che il PRC
aumenta questa possibilità e può aspirare ad una quota
rilevante di potere, che, infine, la mitizzazione dei "movimenti"
tipica della fase precedente non poteva continuare all'infinito. Anzi,
il precedente movimentiamo è funzionale legittimare la svolta
governativa visto che si afferma e si afferma di credere che la
stagione dei movimenti ha rigenerato non solo il PRC ma tutta la
sinistra.
Insomma, avremmo, senza accorgercene, vissuto una rivoluzione.
In realtà, una mutazione seria vi è stata nel quadro
sociopolitico e consiste nella presa di distanza di Confindustria nei
confronti del governo, nell'individuazione di un discorso unificante
nella "lotta contro il declino italiano", nel recupero, per la
verità un po' vago, di un discorso welfarista da parte dei DS e
di parte dell'area cattolica della Margherita.
Ma si tratta di una mutazione che non tocca la natura dei gruppi
dirigenti e le prospettive della sinistra che si ricandida a dare
all'Italia un governo "serio" a fronte della cialtroneria berlusconiana.
E, va da sé, non vi è nulla di più serio che l'imposizione di sacrifici ai lavoratori.
Mentre il circo equestre elettorale aumenta la ricchezza dell'offerta
al pubblico, le contraddizioni sociali non solo non scompaiono ma
crescono ed è sul carattere radicale di queste tensioni, sul
loro non essere riconducibili allo scambio politico, che si tratta di
lavorare.
Cosimo Scarinzi