Umanità Nova, numero 6 del 20 febbraio 2005, Anno 85
Tra le tante "fughe di notizie" alle quali è possibile attingere per gentile concessione di questa o quella istituzione, risulta particolarmente significativa la diffusione di un rapporto - il «Us Nuclear Weapons in Europe» (Armi nucleari americane in Europa) - realizzato dal centro studi di New York «Natural Resources Defence Council» sulla base di materiali declassificati, foto satellitari, piani di guerra e documenti segreti ottenuti da fonti militari.
Secondo questo rapporto, in Italia si trovano ben novanta ordigni nucleari (cinquanta nella base USA di Aviano e quaranta nei depositi di Ghedi di Torre) che fanno parte di un micidiale pacchetto di quattrocentottanta ordigni ben distribuiti in undici basi di sei nazioni europee (Belgio, Germania, Olanda, Turchia, Gran Bretagna e, come detto, Italia).
Per quanto riguarda le bombe atomiche custodite ad Aviano, si tratta di potenziale bellico che i piani militari assegnerebbero - in caso di conflitto - ad aerei statunitensi, mentre quelle di Ghedi di Torre sono destinate alla gestione italiana attraverso gli aerei PA-200 Tornado.
La presenza e l'uso di armi nucleari in Europa sono regolati da accordi fra singoli paesi e Stati Uniti, e la procedura prevede addirittura che in caso di guerra il presidente USA possa ordinare alle sue truppe che sorvegliano le testate nucleari di consegnarle al personale militare del paese alleato. Và da sé che l'addestramento dei militari non americani sia pratica costante e ampiamente prevista. Un particolare, questo, che stride come una violazione del Trattato contro la proliferazione nucleare anche se tale accordo può essere facilmente raggirato sostenendo che gli accordi segreti tra USA e loro alleati furono stipulati prima del 1970, anno in cui entrò in vigore il Trattato.
Come spesso succede in questi casi, i portavoce del Pentagono nicchiano e non sono autorizzati a smentire o confermare il risultato del rapporto ormai di dominio pubblico.
Alla metà degli anni '70 gli USA potevano disporre di settemilatrecento testate a medio raggio piazzate in Europa, successivamente ridotte negli anni '80 a seguito degli accordi sul disarmo. Con la fine della guerra fredda si è assistito ad un progressivo smantellamento del potenziale europeo le cui stime non ufficiali si erano sempre attestate sulle duecento unità, ed è per questo che la notizia di questi giorni - fornita di tutti i crismi dell'ufficialità - sembra essere così sorprendente.
A manifestare il proprio indignato sbigottimento ci ha pensato Giovanni Forcieri, democratico di sinistra, membro della commissione Difesa e presidente della commissione Lavori per la Nato.
Per il buon Forcieri la presenza di novanta bombe atomiche sul suolo italiano costituisce «una novità assoluta, inaspettata e, se fosse vero, sarebbe anche grave se il nostro Paese, senza alcuna conoscenza da parte del Parlamento, da parte di nessuno, ospitasse ordigni nucleari di qualsivoglia tipo».
Molto più pragmatico e molto meno naive il commento del leghista Edouard Ballaman - eletto proprio ad Aviano: «Che Aviano e Ghedi contenessero bombe atomiche lo sapevamo dagli anni Settanta come sappiamo che fanno parte di quei patti sottoscritti che sono secretati e di cui non possiamo venire a conoscenza neanche da parlamentari».
A leggere queste dichiarazioni così dissonanti sullo stesso argomento, se non si trattasse di materia così drammaticamente delicata e attuale, verrebbe senz'altro da ridere.
Le documentazioni prodotte nel corso degli anni dagli antimilitaristi e dai pacifisti sulla presenza delle basi Nato in Italia e del loro invasivo potenziale distruttivo sono abbastanza note non solo agli abituali lettori di questo giornale, ma anche a chi ha partecipato anche solo per poco alle numerose mobilitazioni contro le guerre di ieri e di oggi.
L'Europa continua ad essere una rivoltella puntata alla tempia dell'Est: Medioriente, Iran, Siria e - perché no? - Russia e Cina sono i bersagli di un'attenzione bellica che gli USA tengono sempre più alta.
Con una guerra all'anno (Afganistan e Iraq) lo spostamento verso Est di americani e loro alleati è un dato di fatto che non promette nulla di buono per il futuro.
È legittimo chiedersi, a questo punto, qualcosa di diverso:
perché pubblicare e diffondere questo tipo di informazioni?
Perché fornire cifre e dati su documenti e accordi violando
così quella segretezza così cara agli apparati militari
che, per antonomasia, lavorano nell'ombra?
Probabilmente anche queste operazioni mediatiche sono concepite per
sortire uno strisciante effetto di abitudine al concetto stesso di
guerra e di co-belligeranza.
Come già scritto su queste pagine, l'assuefazione alle dinamiche di guerra è l'effetto dei periodici "scoop" sulle torture inflitte a prigionieri di guerra iracheni o su altre nefandezze sulle quali i vertici militari si dichiarano sempre pronti a indagare e intervenire con esemplare severità.
Allo stesso modo, la morte di un mitragliere elicotterista italiano ammazzato in combattimento viene descritta come la morte di un povero cristo che si trovava lì per caso.
E se, per finire, il tribunale militare assolve quattro elicotteristi italiani dall'accusa di "codardìa" per essersi rifiutati di alzarsi in volo con i loro mezzi non è perché i quattro avessero disertato o rifiutato di uccidere, ma perché il sistema antimissile dell'elicottero in questione non era abbastanza efficiente. Insomma, lodevole eccesso di zelo per quattro professionisti. La guerra o la si fa bene, o non la si fa.
Contrastare il moloch della propaganda di guerra nella quale siamo immersi è forse uno dei compiti più ardui del movimento antimilitarista, ma è un passo doveroso dal quale non si può prescindere.
Continuare a indignarsi per il fatto che aerei italiani pagati dal contribuente siano in grado di portare in giro bombe atomiche anche dieci volte più potenti di quella di Hiroshima, è un esercizio di umanità nel quale è necessario coinvolgere tutti.
Bisogna sfuggire all'intorpidimento al quale vogliono costringerci, sputando quei rospi che - tra una menzogna e l'altra - vorrebbero farci ingoiare.
In questo senso, la sfida del movimento contro la guerra si gioca anche su questo terreno: costruire un dissenso di massa, una dissociazione dalle politiche e dalle pratiche di guerra, una delegittimazione sociale di tutti gli apparati di Stato che la guerra la promuovono e la foraggiano sulla nostra pelle.
L'obiettivo è quello di sempre: la diserzione generalizzata.
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria