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Umanità Nova, numero 8 del 6 marzo 2005, Anno 85

Non in nostro nome
Verso Rimini
Stracciamo l'oscena retorica patriottica



Campeggia, torvo e inquietante, nelle piazze italiane, il diafano faccione di Gianfranco Fini. Alle sue spalle le parole d'ordine di una reazione che ha smesso di vergognarsi di se stessa e che ora enuncia ad alta voce le proprie convinzioni. Fra i tanti, anche questo slogan: «Eravamo in pochi a chiamare patria l'Italia. Oggi siamo maggioranza». Forse non è ancora così ma manca poco, ormai. Come manca poco che fascisti e affini possano dire di rappresentare, con la legittimità di un consenso generalizzato, quella che una volta, da sinistra, si definiva volontà popolare.

Ricompaiono sempre più prepotentemente i cancri che pensavamo destinati a finire fra i rifiuti. Fra i rifiuti di una società per la quale anche noi abbiamo lottato e nella quale avremmo voluto che si affermassero ben altri e alti valori: la libertà dallo sfruttamento, la libertà dal bisogno, la solidarietà fra gli emarginati del mondo intero.
E invece patriottismo, nazionalismo, militarismo. Concetti tanto vuoti di umanità e intelligenza quanto gonfi di una retorica stupida e criminale, che vengono riproposti e riaffermati da una classe dirigente arrogante come e più di quelle che l'hanno preceduta, e che non avverte il pudore di nascondere le vergogne del proprio passato.

Patriottismo, nazionalismo, militarismo, gli artefici di un disastro che ridusse in rovina l'intero paese e che oggi tornano a irretire ampi settori di una società sommersa da una propaganda che cela, dietro queste belle parole, le oscenità del potere.

Patriottismo, nazionalismo, militarismo, concetti che fanno riecheggiare le responsabilità delle tragedie che insanguinarono il secolo trascorso. E che oggi si apprestano ad insanguinare, più di quanto già non stiano facendo, il nuovo millennio.

"L'Italia è un paese che ripudia la guerra". Così, più o meno, recita la costituzione italiana: di un paese e di una comunità che uscirono distrutti dal fascismo e dalla sua guerra e che si illusero che bastasse scrivere questa frase su un pezzo di carta perché non si ripetessero le tragedie che avevano insanguinato l'Europa. "Se l'Italia fa ancora guerre, vado in piazza, anche da solo, a incatenarmi davanti al monumento" mi diceva anni orsono, determinato e pessimista, un vecchio compagno che di guerre, e di orrori, ne aveva vissuti fin troppi. Solo la tarda età gli ha risparmiato di vedere "i nostri ragazzi" invadere, nelle loro fighissime tute mimetiche, paesi e terre lontane. E quindi di offrire la propria dignità alle "ragioni" dell'umanità.

Disciplina, onore, coraggio, ardimento. I capisaldi del nostro come di qualsiasi altro esercito, oggi come sempre. Disciplinati in un succedersi di stupidi "signorsì", e pronti ad ogni angheria con chi si pensa debba essere sottomesso. L'onore delle armi, l'onore di casta, l'onore del privilegio, l'onore di una divisa carica di "gloria"; purché non si debba onorare e rispettare chi è diverso, chi non può o non vuole condividere le solite stupide certezze. Il coraggio, il coraggio di colpire e uccidere, il coraggio di perdere l'umanità, ma non quello di rifiutare di essere complici dei delitti a cui chiama il potere. E l'ardimento, il ridicolo salto nel cerchio di fuoco, quello vero dei gerarchi di un tempo, e quello metaforico, ma non meno ridicolo, di chi è capace di inventare ragioni etiche per giustificare le attuali politiche di aggressione.

E, ancora, l'orgoglio. L'orgoglio di essere italiani, la civiltà romana, i geni del Rinascimento, i colli fatali di Roma, noi con gli acquedotti e voi nelle capanne, il genio di Dante, la grandezza di Machiavelli... e Mussolini, il più grande statista del novecento. Chiunque ha modo di sbandierare le proprie presunte grandezze per sbatterle in faccia all'altro, in uno stupido gioco infantile dove "il mio papà è più ricco del tuo". Che pena vedere uomini fatti, seriosi padri di famiglia, spocchiosi e affermati professionisti, presuntuosi rappresentanti del popolo, ridotti a recitare, con maggiore o minore convinzione, la ridicola pantomima dell'orgoglio nazionalista.

Tutti, a destra come a sinistra, reazionari e progressisti, democratici sinceri e sinceri nostalgici, pronti a innalzare il tricolore a ogni balcone, a sbandierare l'amor patrio in un rigurgito di italianità, in un afflato che prende in sé il popolo italiano e che vorrebbe esprimere un senso di appartenenza addirittura trascendentale. Ma altrettanto pronti, quando serve, a posporre all'interesse collettivo e della "patria" la strenua difesa del proprio particulare. Davvero bel modo, questo, di sentirsi tutti italiani e fratelli!

C'è un settore dell'industria che non conosce crisi. Che neppure negli anni bui della recessione, o quando ha dovuto smettere di produrre mine antiuomo, ha visto ridursi i profitti. È un'industria privilegiata, infatti, quella delle armi, un'industria che, se occorre, vede scendere al suo servizio le massime autorità dello stato. Quelle stesse sempre impegnate a parlare di pace, ma evidentemente convinte che la sola pace sia quella che poggia sulla ragione delle armi. E quante più armi esportiamo, tanto più ne ricaviamo profitti. Senza badare se chi le acquista le usa per soffocare nel sangue i propri oppositori o per aggredire l'indifeso vicino. Il mercato è mercato, libero e tale deve restare, anche se magari un po' protetto. Altrimenti poi nascono i problemi con il famoso Pil.

E come non conosce crisi l'industria bellica, così non conosce crisi quella funeraria istituzione, ricoperta di stellette e di carnevalesche parure, che ha ripreso ad esportare, coi governi di destra come di sinistra, la civiltà italiana ai quattro venti. Finalmente, dopo anni di marmittoni spauriti e piagnucolosi, un esercito di professionisti determinati, sparsi fra le montagne afgane o nei deserti mediorientali, e fieri di rappresentare l'onore, l'orgoglio e tutte le altre sciocchezze di cui si diceva. Salvo piangere anche loro quando, come purtroppo accade, qualcuno inciampa nei cosiddetti incerti del mestiere.

A quanto pare, chi in un modo e chi nell'altro, siamo tutti chiamati alle armi. E tutti dovremmo arruolarci per partecipare e contribuire a questo frizzante risveglio dell'italico orgoglio e dell'amore patrio. Come tutti dovremmo gioire perché l'Italia ha riacquistato quel ruolo di protagonista nello scacchiere mondiale che le fu negato, sessant'anni orsono, dall'invidia delle potenze demoplutocratiche.

E invece noi non ci stiamo. Non vogliamo farci stordire dai tromboni stonati della retorica patriottarda e della demagogia guerrafondaia. Così come ci rifiutiamo di prestarci all'equivoco della istituzionalizzazione di quel sentire pacifista che ancora riesce ad esprimersi nonostante i suoi interessati mentori. E come tutte le volte che lo stato si fa chiamare patria, la nostra risposta non può essere che una, quella della diserzione. Potranno reprimerci e conculcare le libertà che rimangono, ma i nostri cervelli e la nostra umanità, all'ammasso, non intendiamo proprio portarceli!

Massimo Ortalli







































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