Umanità Nova, numero 8 del 6 marzo 2005, Anno 85
Resta provato essere il femminismo esagerato nient'altro che del chiaro e preciso antifascismo.
("Critica Fascista", 1933)
Basterebbero le cifre ufficiali per comprendere la rilevanza della
partecipazione delle donne alla Resistenza: trentacinquemila le
partigiane; ventimila le "patriote" con funzioni di supporto;
settantamila quelle aderenti ai Gruppi di difesa della donna, la
struttura dei CNL. Altissimo anche il prezzo pagato: 2.900 fucilate o
cadute in combattimento, 4.653 arrestate e torturate, 2.750 deportate
(da fonti ANPI).
Eppure nonostante questi dati numerici, quella delle donne che si opposero e che combatterono il fascismo rimane una realtà semisommersa all'interno della storia della Resistenza, monopolio quasi esclusivo della figura al maschile del partigiano, quello celebrato anche da una canzone famosa come "Bella ciao!".
Le poche volte, infatti, che nei saggi di storia ci si imbatte nel ruolo avuto dalle donne nella lotta partigiana, questo viene tutt'al più descritto come subalterno e limitato a quelle "mansioni" che sono generalmente ritenute femminili, quali quello dell'assistenza infermieristica, della sussistenza alimentare, della protezione dei fuggiaschi, della solidarietà verso le famiglie dei caduti: compiti sicuramente svolti e tutt'altro che secondari, ma certo in un'ottica assai diversa da quella di "casalinghe alla macchia" che si vorrebbe imporre a quelle donne ribelli.
Ribelli due volte, perché non solo combattevano l'oppressione fascista, ma dovevano liberarsi anche dall'ideologia sessista che il fascismo - virile per antonomasia - aveva ulteriormente rafforzato in una società patriarcale come quella italiana nella quale, anche per l'influenza del cattolicesimo, la donna era inchiodata ai ruoli di figlia, moglie e madre, sempre ben dentro la famiglia tradizionale. Ruoli così oppressivi che gli anni 1924, 1926 e 1928 fecero registrare il più alto numero di suicidi femminili dell'Italia contemporanea.
Emblematici i profili delle donne schedate dalla polizia fascista per il Casellario Politico; la prassi era di evidenziarne "i sentimenti spiccatamente sovversivi" o le "idee estremiste", ma a colpire i funzionari di questura erano soprattutto le "anomalie" che distinguevano le oppositrici dalle "donne normali": "di carattere volgare e prepotente", "dotata di grande scaltrezza…imbevuta di teorie comuniste", "di mediocre condotta morale", "lesbica", "giovanissima, piacente e prosperosa, parrebbe creatura volta al sorriso e alla benevolenza, anziché all'odio".
D'altra parte la rivolta contro la centralità e il prevalere della figura maschile, le donne dovettero sicuramente condurla anche all'interno del movimento resistenziale, proprio tra gli stessi compagni di lotta e le forze politiche che l'animavano. Per tale logica discriminante, ad esempio, le partigiane piemontesi, nonostante che avessero avuto 99 compagne cadute, si videro negato all'indomani della liberazione il diritto di sfilare armate assieme agli uomini; così come la cultura maschilista affiora persino nella retorica delle motivazioni della medaglia d'oro "alla memoria" delle partigiane Livia Bianchi, caduta "virilmente impugnando le armi" in Valsolda, e Gina Borellini che nel modenese aveva "impugnato le armi dando frequenti e luminose prove di virile coraggio".
Inoltre, va sottolineato, che non appare neppure fondata la recente tesi secondo la quale le donne avrebbero condotto soltanto una resistenza "non-violenta".
A smentirla, c'è ad esempio il fatto che il riconoscimento ufficiale delle 35 mila partigiane risulta legato a precisi requisiti: l'aver portato le armi almeno per tre mesi in una formazione combattente ed aver partecipato ad almeno tre azioni di guerra o sabotaggio.
D'altra parte, la storia della guerriglia partigiana è ricca
di presenze femminili, soprattutto all'interno delle SAP e dei GAP, i
nuclei operativi clandestini che nei contesti urbani e nei centri
industriali praticavano il sabotaggio e le azioni di sorpresa contro i
nazi-fascisti.
Una di queste presenze è quella Francesca "Edera" De Giovanni,
catturata su delazione il 25 marzo 1944 a Bologna assieme ad altri
cinque gappisti della 36ª brigata "Bianconcini-Garibaldi", tra i
quali l'anarchico Attilio Diolaiti, e quindi fucilata come "terrorista"
dai repubblichini il 31 marzo alla Certosa assieme ai suoi
compagni.
Tra le tante altre, ricordiamo Irma Bandiera, della 7ª brigata GAP, anche lei assassinata a Bologna; Iris Versari, compagna di vita e di lotta del bandito Silvio Corbari, atrocemente uccisa dai repubblichini a Forlì; Maria Luchetti, partigiana nelle formazioni anarchiche, caduta nel Carrarese; le sorelle Libera e Vera Arduino, entrambe sappiste, fucilate a Torino il 13 marzo del '45; le comuniste Carla Capponi e Nori Brambilla, attive rispettivamente nei GAP romani e milanesi.
Ma un altro aspetto assai rilevante, peraltro tutto da indagare, dell'antifascismo al femminile fu quello delle lotte delle operaie e delle lavoratrici. Gruppi assai combattivi, composti da donne, risultano costituiti nelle principali fabbriche dei grandi centri del Nord, come la Fiat a Torino, la Marelli a Milano, la San Giorgio a Genova, gruppi che raccoglievano anche denaro per la resistenza sui monti. Da una relazione del giugno 1944, inviata dal comitato nazionale dei Gruppi di Difesa della donna al CLN Alta Italia, si apprende che a Milano, nelle fabbriche, si contavano ventiquattro gruppi con circa 2.000 donne aderenti, altrettante erano quelle a Torino e 3.300 a Genova, mentre parecchie centinaia erano le lavoratrici organizzate in Emilia, Toscana, Marche e Veneto. Anche nel piacentino, dove le fabbriche occupavano il 90% di donne, furono costituite cellule di operaie che preparavano e diffondevano la stampa clandestina, volantinavano e organizzavano scioperi. A Firenze nelle fabbriche gruppi di donne organizzarono scioperi e attuarono forme di sabotaggio della produzione bellica; quelle della Manifattura Tabacchi urlarono in faccia al prefetto fascista la loro ribellione.
Uno specchio assai interessante della presenza delle donne nella lotta partigiana ci viene offerto da tante immagini presenti nel bel volume "Storia fotografica della Resistenza" (Bollati Boringhieri); foto di donne in situazioni diverse e con livelli diversi di coinvolgimento, ma comunque numerosissime, seppure in un mondo declinato e rappresentato al maschile.
Donne sorridenti alla macchia e donne vittime dei fascisti, donne in fuga dalla guerra e donne protagoniste della guerra civile. Assai belle quelle che mostrano un comizio partigiano in piazza a Lessona tenuto da Anna Marengo, medico responsabile sanitario della 50ª divisione Garibaldi; tragica quella in cui si riconosce Cleonice Tommasetti condotta alla fucilazione assieme ad altri quarantadue partigiani a Verbania; significativa quella in cui si vede una partigiana armata di Walther P38 alla testa di un gruppo di insorti milanesi che conducono il gerarca Starace a piazzale Loreto.
Frammenti di storie di donne convinte che, come ebbe a scrivere una di loro su Il Comunista Libertario del maggio '45, "la felicità non può consistere in alcun modo nell'osservanza delle leggi, nella sottomissione alla regola".
A cura di emmerre