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Umanità Nova, numero 9 del 13 marzo 2005, Anno 85

Una storia di merda!
Sudditi e re: lo scappellotto di King George all'amico Silvio



Una storia di guerra, e quindi una storia di merda! E tanto più una storia di merda in quanto, come ormai è evidente, la si vorrebbe fare passare come un incidente di percorso: doloroso, certo, ma inevitabile. Altrimenti che incidente sarebbe? 

E tanto più una storia di merda, quanto più si fa strada la volontà di mettere tutto a dormire sotto la solita coperta della ragion di stato, fra imbarazzi, reticenze, ritrattazioni e "qui lo dico e qui lo nego", anche fra chi, come siano andate le cose, lo ha capito piuttosto bene.

Ovviamente non siamo in grado di dire, con esattezza, cosa sia davvero successo sul tratto stradale che porta all'aeroporto di Baghdad. E perché le truppe americane abbiano sparato, per uccidere, sulla macchina che stava portando Giuliana Sgrena e gli agenti del Sismi all'aereo che li avrebbe ricondotti in Italia. Così come ci riesce decisamente difficile dare, alle tante domande che in questi giorni rimbalzano da ogni parte, altre risposte che non siano quelle che rimandano a una espressa volontà omicida. Di un "macabro scherzo del destino" ha parlato quel mattacchione di Fini - che deve avere una concezione tutta sua di cosa sia uno scherzo - dopo che, per un momento (sicuramente brevissimo) è sembrato che l'incidente potesse incrinare la tradizionale "amicizia", o meglio, sudditanza dei governi italiani nei confronti di quello statunitense.

Per conto nostro, comunque, una convinzione, su questa sporchissima storia, ce la siamo fatta, e non intendiamo ritrattarla o edulcolarla come sono stati costretti a fare quanti, a botta calda, hanno detto le cose come stavano. E la convinzione è che tutto possa essere stato fuorché un incidente, un errore, come ci è toccato di leggere e sentire, causato dalla inesperienza e dalla paura di questi ragazzoni yankee di 19 anni appena sbarcati in Iraq e incapaci di reggere situazioni più grandi di loro.

Se dovessimo fare gli investigatori, o tingere di giallo questo dramma, non faticheremmo a mettere in fila gli elementi che sorreggono la nostra convinzione che si sia trattato, né più né meno, del classico agguato: il numero di colpi sparati, la provenienza del fuoco, le bugie americane sul check point e sulla velocità della vettura, il presunto mancato collegamento fra servizi italiani e americani, gli avvertimenti dei sequestratori, la fretta di ripartire per l'Italia, il sequestro dei cellulari, il fascio di luce di avvertimento che non c'è stato, le dichiarazioni del carabiniere autista e quelle di Giuliana Sgrena. E poi, le reazioni a botta calda dell'establishment italiano, il furore di Berlusconi che una volta tanto non ha sparato le solite sciocchezze, la disorientata cautela dei suoi portaborse, il "commovente" imbarazzo degli imbonitori televisivi costretti a "parlare male" dell'amico americano, l'ira degli amici e dei compagni della Sgrena e di Calipari.
Ma tutto questo, anche se così chiaro e lampante, non ci basta, perché, tanto per restare in campo giallistico, anche questo delitto, come tutti i delitti del resto, deve avere un movente. Ed è sul movente, ritengo, che si debba ragionare.

Fin dall'inizio della guerra in Iraq, come del resto in tutte le altre occasioni di conflitti, gli Usa hanno preteso e avuto completa carta bianca dagli alleati di turno nella gestione delle operazioni. Non solo in quelle militari, come potrebbe essere logico, ma anche in quelle politiche e di ordine pubblico. È un assioma, questo, per tutti i governi che si sono succeduti alla guida degli Usa, un assioma al quale gli americani non potrebbero rinunciare mai. E infatti non è mai successo il contrario. E per avere questa gestione assoluta del controllo le strade, in fin dei conti, non sono molte. Anzi, è una sola: adeguatevi o peggio per voi.

Questo naturalmente presuppone sia l'assoluta acquiescenza degli alleati sul piano militare, sia il completo controllo dell'informazione su quanto, cosa e come accade nel teatro delle operazioni. Rispetto all'acquiescenza, questa generalmente è messa in conto senza troppi problemi, e infatti nessuno degli alleati nella guerra in Irak ha osato, fino ad ora, mettere in discussione alcunché del comportamento degli americani. Al massimo qualche sommessa critica, qualche tentativo di presa di distanza, ma niente di più. Del resto gli interessi dei paesi che accettano di andare a servire quelli americani nel deserto irakeno sono più o meno coincidenti con quelli del padrone. Ecco perché la politica italiana, tutta italiana, di patteggiare con i sequestratori e di pagare riscatti che poi andranno, se i sequestratori sono proprio guerriglieri, a finanziare la guerriglia, agli americani non va affatto giù. Se poi si mette nel conto che proprio un giorno prima della liberazione della Sgrena si è saputo che un ministro italiano, Buttiglione tanto per cambiare, andrà a Baghdad a testimoniare a favore del numero due del regime iracheno, il buon cristiano Tarek Aziz, la misura è sembrata davvero colmarsi. Hanno pazientato con i mercenari - Bush lo doveva all'amico Berlusconi - hanno pazientato, anche se un po' meno di buon grado, con le due Simone, ma adesso basta! Sennò, poi, dove andremmo a finire?

E infatti, con Giuliana Sgrena, scomodissima reporter sempre decisa a raccontare quello che vedeva e non quello che le dicevano, si è arrivati a un punto di rottura: gli italiani devono smettere di pagare. E, soprattutto, su quanto è successo a Falluja, o in altri tragici teatri di operazioni militari, non si deve sapere altro che quello raccontato dai vari giornalisti embedded (quando ammessi) al seguito delle truppe. Del resto, di come sia incredibilmente drammatica la situazione sociale in Iraq, nonostante i bei servizi sulle "democratiche elezioni e la ritrovata libertà", qualcosa siamo venuti a sapere anche noi, in questi giorni. A spizzichi e a bocconi, infatti, tra le pieghe dei giornali o dei resoconti televisivi, qualche particolare della ferocia con la quale si esprime la occupazione militare della coalizione in Iraq, anche se a malincuore, è saltato fuori. Ebbene, per questa volta ancora passi, ma d'ora in poi basta! Di testimoni scomodi e di politiche alternative o autonome, gli americani non ne vogliono proprio più. E l'Italia sta cominciando a capire la lezione, come dimostrano la ritirata, dopo quella delle onlus, di tutti i corrispondenti italiani in Giordania, e poi l'invito-ordine del governo a tutti gli italiani di non andare più in Iraq.
Del resto, ci pensano loro a dire le cose come stanno e a far scoppiare, ogni tanto, qualche scandaletto per soddisfare le coscienze occidentali. Di Abu Ghraib si è fatto un gran parlare e un sergente si è pure preso la sua brava condanna, ma intanto le Abu Ghraib si sono moltiplicate e il numero dei detenuti iracheni aumenta, giorno per giorno, in modo esponenziale. Di Falluja, di questa Dresda o Stalingrado irachena, ci si sta pure scordando il nome (dopo che Giuliana Sgrena era andata a raccogliere fra le poche testimonianze filtrate), e l'indignazione per l'agguato alla macchina degli italiani si troverà il modo, nel solito clima di concordia nazionale, di trasformarla in indignazione contro chi ancora si permette di definire criminale la politica imperialista statunitense. E come al solito, sopite le polemiche e la commozione per la morte di Calipari, tutti sapranno ritrovare il buon senso necessario per riportare le cose sul binario giusto.

Insomma, come si diceva all'inizio, una storia di merda!

Massimo Ortalli







































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