Umanità Nova, numero 9 del 13 marzo 2005, Anno 85
La nuova democrazia irachena è stata battezzata in un lavacro di sangue.
Duecento tra morti e feriti nell'attentato a Hilla, dove un'esplosione ha dilaniato dei lavoratori in fila davanti a un ufficio di collocamento.
Nel primo mattino del 2 marzo a Baghdad un'auto-bomba è saltata in aria accanto a una fila di persone in coda per arruolarsi nell'Esercito governativo. Almeno sette i morti, tutti agenti della Guardia Nazionale, e 38 i feriti. A meno di un'ora di distanza, una seconda potente deflagrazione ha fatto sette morti e sei feriti.
Il 3 marzo, sempre a Baghdad, due auto-bomba sono saltate in aria davanti all'ingresso principale della sede del ministero dell'Interno: cinque morti.
Probabilmente dimentichiamo altri episodi altrettanto cruenti, e ce ne scusiamo con tutti.
Riuscire a star dietro al quotidiano bollettino di guerra iracheno diventa sempre più difficile.
Altrettanto difficile è stato affrontare il viso terrorizzato di Florence Aubenas, la giornalista francese di Libération in mano ai sequestratori che chiede aiuto in un video. È sempre più dura la fenomenologia di questa guerra che si combatte su più fronti: quello esterno, fisico, che miete vittime su vittime in terra irachena; quello interno, politico, in cui qualsiasi voce fuori dal coro viene soffocata e criminalizzata; e quello mediatico, culturale, in cui l'informazione libera viene imbavagliata, manipolata e addomesticata in favore di una rappresentazione artificiosa della realtà.
Come in una maionese impazzita, la televisione sforna quasi contemporaneamente immagini di devastazione e contestuali rassicurazioni che tutto fila liscio, che l'Iraq è un paese che sta cambiando in meglio, e che non c'è nulla da temere.
Il dramma dell'Iraq, l'appello di Florence rimbombano nell'impotenza collettiva avvertita da tutti coloro che si oppongono da ormai due anni a questa guerra e a tutti i massacri e i genocidi consumati in tutto il mondo per conto dei potentati politici ed economici.
I rapimenti dei giornalisti, gli attacchi ai civili, i rastrellamenti delle truppe occupanti rientrano nella logica perversa della guerra che colpisce sempre più chi la guerra non la vuole e non la fa. Una logica nella quale centinaia di persone sono stritolate ogni giorno.
L'orrore quotidiano non è più tollerabile, così come disgustosa è l'indifferenza che vogliono imporci i professionisti dell'orrore.
È necessario ricostituire un ampio fronte di lotta: la sfida
del movimento contro la guerra sta nel costruire un dissenso di massa,
una dissociazione dalle politiche e dalle pratiche di guerra, una
delegittimazione sociale di tutti gli apparati dello Stato che la
guerra la promuovono e la foraggiano sulla nostra pelle.
Quella del 19 marzo è una data importante per tutto il movimento contro la guerra.
In particolare, gli anarchici e gli antimilitaristi sono investiti di una responsabilità non indifferente: costruire una giornata di mobilitazione che non ammetta tentennamenti o ambiguità su un terreno così delicato. Ancora di più gli anarchici sanno che non può risolversi tutto in una manifestazione, ma che questa deve costituire un trampolino di lancio verso un percorso di liberazione sociale che ha un solo obiettivo vitale: la diserzione generalizzata.
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria