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Umanità Nova, numero 10 del 20 marzo 2005, Anno 85

Una lettura critica dell'opera dell'economista radicale Albert
L'economia partecipativa tra suggestioni e limiti



L'economista "radical" statunitense Michael Albert, assieme ad altri, da anni studia un modello di economia alternativa al capitalismo che viene definito "Economia Partecipativa" (Parecon, per gli amici). Nel 2003 venne pubblicato da "il Saggiatore" l'ultimo libro di Albert sull'argomento: un testo divulgativo su parecon il cui titolo italiano è "Il libro dell'economia partecipativa".

L'opera di Albert tratta diversi argomenti ora in modo superficiale ora sbrigativo, non per lo stile sostanzialmente colloquiale del testo (sembra che un tono più "accademico" caratterizzi invece "The Political Economy of Participatory Economics" scritto con Robin Hahnel) quanto per l'assenza di adeguati approfondimenti d'analisi. In ogni caso, i temi trattati non sono pochi, e da questi si può prendere spunto per l'avvio di vaste riflessioni. Purtroppo in un unico articolo non è possibile prendere in considerazione tutto e, allo stesso tempo, una carrellata di opinioni necessariamente brevi e non esaustive su ogni argomento rischia di essere tanto sterile quanto incomprensibile per chi non ha letto il libro. Darò quindi un'opinione complessiva, cercando di evidenziare alcune questioni importanti. Se si riterrà opportuno, o se si svilupperà un dibattito, analisi più dettagliate potranno essere elaborate in futuro.

Parecon: equità, autogestione partecipativa, diversità e solidarietà

Parecon si propone di promuovere quattro valori principali: equità, autogestione partecipativa (inquietante che, per lo meno inizialmente, l'autore si senta in dovere di accompagnare la parola autogestione con l'aggettivo "partecipativa"!), diversità e solidarietà. Oltre a questi, anche efficienza e sostenibilità ambientale. In un'economia partecipativa il concetto di proprietà privata non esisterebbe, i mezzi di produzione sarebbero una «proprietà sociale». L'allocazione, cioè il processo e le istituzioni «che determinano chi produce un certo bene, quanto ne produce, qual è la ragione di scambio dei beni e dove questi vanno a finire», avverrebbe mediante la «pianificazione partecipativa» realizzata attraverso l'interazione tra consigli di lavoratori (proposte di produzione) e consumatori (proposte di consumo) di vario livello e coordinati da appositi comitati, nonché equilibrando e riequilibrando la domanda e l'offerta con opportune variazioni dei prezzi di beni e servizi.

Le "istituzioni" di parecon

Circa i consigli autogestiti, pur affermando che al processo decisionale devono partecipare tutte le persone coinvolte nella situazione presa in esame, e che ciascuno deve avere nella decisione un peso proporzionale all'impatto che la decisione stessa avrà sulla sua persona, resta oscuro come si possa definire equo un sistema che contempla - nel caso in cui il consenso (unanimità) venga ritenuto inadatto - la possibilità di prendere decisioni a maggioranza (semplice o d'altro tipo). Ciò significa che una maggioranza può imporsi su una minoranza di persone, pur essendo queste ultime coinvolte e toccate dalla questione - se non lo fossero, non prenderebbero parte al processo decisionale! Per quanto riguarda il peso che ciascuna persona dovrebbe avere nelle decisioni, penso che l'unico modo per stabilire tale caratteristica sia il confronto reciproco fondato sul buon senso; di conseguenza, visto che Albert afferma che alcuni potrebbero pretendere di avere un peso sproporzionato e che sarebbe necessario evitare che ciò avvenga, non mi è chiaro chi e come deciderebbe, e in base a cosa, quanto peso debbano avere i singoli.

A parte questo, e altri passaggi oscuri e contraddittori, la cosiddetta pianificazione partecipativa si inserisce in un sistema di istituzioni e meccanismi la cui tanto implicita quanto inquietante funzione è la "normalizzazione". In un'economia partecipativa la remunerazione sarebbe il frutto di valutazioni - da parte dei colleghi o di appositi comitati! - dell'«impegno-sacrificio» con cui ciascuno si dedica all'attività lavorativa. Il lavoro sarebbe caratterizzato da «combinazioni bilanciate di mansioni», cioè combinazioni di mansioni più onerose e meno stimolanti con altre meno onerose e più stimolanti. Anche in questo caso spuntano dei comitati che studiano le combinazioni e tentano di bilanciarle, in base a valutazioni standardizzate che i lavoratori fanno sulle varie mansioni, e in base alla media di queste valutazioni - viene da chiedersi a cosa servirebbero tutti questi addobbi organizzativi dato che il lavoro sarebbe autogestito, che il giudizio soggettivo sulle mansioni e i lavori è assai diversificato, e che, a meno di affermare che esistono immense masse di decerebrati, le persone sono in grado di valutare, confrontarsi e dividersi equamente i compiti. Ma lo scopo di tutto ciò è anche quello di inserire le persone in un contesto lavorativo e organizzativo che, in quanto ad impatto sulla persona, risulti pressoché omogeneo per tutti e, allo stesso tempo, mantenga le condizioni necessarie affinché pure l'impegno-sacrificio dei singoli sia più omogeneo possibile, non discostandosi di molto dalla media. Questi meccanismi agiscono ovviamente anche sulla produttività dei lavoratori, nonché sulle capacità di consumo. 

Potrà pure sembrare banale, ma mi sembra che una "società libera" possa realizzarsi e mantenersi tale solamente attraverso il libero accordo e il confronto continuo fra gli individui che la compongono, i quali devono avere la volontà di creare e ricreare le condizioni per cui la società possa definirsi libera. Conseguentemente i meccanismi che regolano la vita economica (con l'autogestione, la solidarietà/cooperazione, l'equità, la diversità, ecc.) dovrebbero essere il frutto di questa volontà dei singoli, del libero accordo e del confronto continuo; parecon, invece, è un sistema economico che rovescia questa relazione! È soprattutto in questo rovesciamento di prospettiva, nei processi decisionali e nella funzione normalizzatrice del sistema che emerge il carattere autoritario dell'economia partecipativa.

Inoltre, se sosteniamo, come fa Albert, che in una società senza classi con un sistema economico antigerarchico caratterizzato da cooperazione ed equità la cultura e l'approccio al lavoro sarebbero diversi da quelli che conosciamo oggi, non si capisce la "necessità" di creare istituzioni con meccanismi come quelli descritti sopra. Credo sia legittimo pensare che non è necessario né giusto tentare in ogni modo di omogeneizzare l'impegno attraverso specifiche istituzioni, e non sarebbe necessario né giusto usare i medesimi metodi per "bilanciare" le mansioni. Certo, è auspicabile che tutti cooperino per portare a termine anche lavori più ripetitivi e poco stimolanti, soprattutto se necessari, ma cercare ossessivamente di ottenere questi risultati mediante appositi meccanismi istituzionali è terrificante. Oltretutto, se uno dei compiti delle combinazioni bilanciate di mansioni è favorire lo sviluppo personale minimizzando il lavoro alienante ed offrendo a ciascuno la possibilità di maturare conoscenze e capacità adeguate per partecipare ai processi decisionali, beh, allora sarebbe piuttosto il caso di ragionare seriamente e in modo approfondito sull'integrazione tra "lavoro intellettuale" e "lavoro manuale".

Il problema della transizione: la non-strategia di Albert

Un altro aspetto dell'economia partecipativa risulta interessante. Nonostante il fatto che sulla fascetta che nelle librerie abbracciava il testo di Albert fosse riportata la frase, firmata Noam Chomsky, «un programma di ricostruzione radicale e i modi per realizzarlo», non si trova nel libro alcuna analisi seria ed adeguata proprio sui modi per creare il regno dell'economia partecipativa. Del resto, parlando di ipotetiche istituzioni mondiali "buone" che sostituirebbero il FMI, il WTO e la Banca Mondiale (io, piuttosto, mi chiederei se servirebbero realmente simili istituzioni alternative!) l'autore sostiene che se anche riuscissimo ad ottenere la creazione di tali istituzioni attraverso delle riforme (campanello d'allarme…), esse verrebbero comunque annientate dall'economia capitalista. Conseguentemente, dice Albert, dobbiamo preoccuparci prima della trasformazione delle economie su scala nazionale. Ho quindi pensato, in mancanza di altri spunti, che anche questo obiettivo fosse da raggiungere con il riformismo "radicale". Un sostegno a questa interpretazione lo offrono le affermazioni di Gheert Dhondt che in un'analisi dei libri scritti su parecon afferma che quella di Albert è una non-strategia, nel senso che si limita ad auspicare la crescita e l'intensificazione dei movimenti di massa… s'immagina: allo scopo di fare pressioni e ottenere riforme "radicali". 

Ora, credo che per l'anarchismo sociale e rivoluzionario sia comunque utile ed opportuno confrontarsi criticamente con l'economia partecipativa ed il suo riformismo radicale. Ma, oltre a questo, penso anche che sarebbe più importante ragionare su come applicare i principi e le idee dell'anarchismo ai diversi ambiti lavorativi che conosciamo oggi, come si potrebbero autogestire concretamente i luoghi in cui svolgiamo quotidianamente le nostre attività lavorative, quali tipi di lavoro sarebbero inutili, come sarebbe possibile realizzare reti decentrate di collegamento, ecc. Non mi pare assolutamente ozioso partire dal particolare concreto (i singoli ambiti di lavoro con le loro peculiari caratteristiche) per supportare ed arricchire le lotte sociali rivoluzionarie e i metodi di lotta con significative proposte pratiche verso cui tendere.

Erich Reise








































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