Umanità Nova, numero 11 del 27 marzo 2005, Anno 85
Il noto detto "A la guerre comme à la guerre" intende
significare l'illimitatezza (materiale e morale) del dispiegamento di
ogni mezzo disponibile per ottenere la vittoria finale che dovrà
ripristinare la pace, ossia il deserto im/posto dal vincitore di turno,
come osservava Tacito a proposito della pax imperiale dei Romani.
Tuttavia è anche corretto affermare che l'assenza di ogni limite
- al di là, beninteso, delle risorse disponibili che non sono
infinite per definizione, come ogni realtà umana - non si
dà sempre e comunque; anche prima delle Convenzioni dell'Aja del
1907 e di Ginevra del 1949 che regolava lo jus in bello - ossia la
condotta legalmente lecita ai sensi del diritto internazionale pattizio
e consuetudinario, con tutti i limiti di tale diritto senza sanzione
legale, come si evidenzia in ogni eccezione: Guantanamo, Abu Ghraib, My
Lai, ecc. - esistevano precetti morali che ritualizzavano lo scontro
fisico sino a morte quale è la guerra. Basti pensare ai tornei,
alle guerre per esibizione di forza, piuttosto che per dispiegamento,
almeno sino alla carneficina di Solferino e San Martino del 1859, dove
l'ammontare spropositato di morti fu dovuto alla assenza di cure
mediche per i feriti, il che diede l'occasione della nascita della
Croce Rossa Internazionale.
Le buone maniere in guerra
Intendo dire che, nel tempo, si è venuta consolidando,
ahinoi!, anche una civiltà delle buone maniere di fare una
guerra, spesso adeguata al livello tecnologico degli armamenti (almeno
dopo aver superato lo sgomento dell'innovazione e il vantaggio
comparativo dell'innovatore: l'invenzione della staffa per la
cavalleria leggera, gli elefanti di Annibale come prototipi di carri
armati, la polvere da sparo per i fucili a retrocarica monocolpi, la
balistica astronomica con ricadute sull'artiglieria pesante, ecc.).
Questi precetti morali condivisi impediscono di uccidere un ferito come
norma usuale, ossia proprio perché un simile evento si dà
in guerra come eccezione stigmatizzata a posteriori, è possibile
parlare di jus in bello, anche senza istituzionalizzare tali precetti
in norme giuridiche che, spesso, lasciano il tempo che trovano, seppure
vengono utilizzati per mobilitare opinioni pubbliche, qualora
esistenti, contro gli effetti fisiologici della guerra, ossia la
legalizzazione di quella che verrebbe considerata comunemente una
strage, una lunga serie di omicidi coperti dallo stato.
Non è un caso che a partire da tali precetti, si è potuto
arrivare ad una posizione pacifista o antimilitarista radicale, quando
si è aperta una breccia nell'immaginario pubblico che non ha
legato più l'evento guerra a un qualcosa di necessario e
naturale perché sempre esistito. La sua "umanità" la
rende disponibile ai voleri strategici di individui e istituzioni,
strategie di dominio e controstrategie anche di resistenza. Niente
più dio o la natura dell'uomo, ma solo calcoli, interessi,
passioni (nazionalismo, patriottismo, meglio: sciovinismo razziale),
dettano la scansione degli eventi bellici, che nei secoli e nella
nostra civiltà si sono progressivamente incanalati entro binari
di scorrimento fisiologico in cui un certo resistere morale e politico,
poi tradottosi anche in giuridico, ha cercato di spostare una soglia
del lecito frapponendo ostacoli al libero dispiegamento della
volontà di potenza brutalmente coniugata, oggi, con armi di
sterminio di massa in cui difficile risulta, ad esempio, distinguere
belligeranti armati che diviene lecito neutralizzare sino alla morte, e
civili inermi da risparmiare alla carneficina.
L'arretramento della soglia dell'eccezione
Questo standard rende eccezionale quello che poco tempo prima
appariva normale, cercando di far arretrare tale soglia dell'eccezione,
che però in quanto tale sussiste come primato della violenza del
più forte. La dissimulazione di tale standard è evidente
nella doppiezza tipica dei più forti: consapevoli di poter
dominare la soglia di eccezione tollerabile e tollerata momento dopo
momento, l'adesione fittizia a tali canoni porta la superpotenza di
volta in volta egemone a esigere, per sé e a proprio vantaggio,
il rispetto puntuale delle norme umanitarie da parte altrui,
così imbrigliandolo, lasciandosi al contempo mano libera, per
sé e a proprio favore, per eccedere ogni qualvolta lo ritenga
opportuno, e per giunta sottraendosi al giudizio morale.
Infatti la ragione invocata di forza maggiore è figlia immediata
di una concezione discriminatoria che disumanizza il nemico,
assimilandolo a una bestia estranea al consesso civile pure in tempo di
guerra. Così si giustificano, in piena espansione coloniale, le
stragi e i genocidi degli indios al tempo stesso in cui la guerra sul
suolo europeo tra le medesime potenze del XVI secolo erano scandite da
quel che oggi potremmo chiamare fair play - senza genocidio, il che non
impediva certamente che un terzo della popolazione allora tedesca fosse
decimata dalla guerra dei trent'anni e dalle pandemie che
inesorabilmente seguivano i massacri militari e mercenari.
Un nuovo ricongiungimento tra guerra e discriminazione umana
Guantanamo, Abu Ghraib, Afghanistan, e via continuando denunciano una cifra dell'epoca che stiamo vivendo: il ricongiungimento ora palese, prima dissimulato, del legame tra guerra e discriminazione disumana che tipicizza ogni volontà di potenza che aspira al dominio proprio perché si sente gerarchicamente superiore non solo e non tanto da una prospettiva di carico di violenza disponibile, quanto e soprattutto da una visione morale in senso ampio, che ricomprende una concezione immaginaria, religiosa, antropologica. Anche oggi i diritti umani e l'intervento umanitario si prestano, sin nella loro essenza costitutiva, per così dire, a farsi risucchiare in questo dispositivo di dominio che non può non essere doppio per definizione, in quanto ogni relazione gerarchica di dominio pone la propria autorità - conquistata a forza e giustificata con retoriche di legittimità - al di sopra dell'altro essere umano, con la velleità ipocrita di condurlo verso la civiltà di cui è unico portatore in esclusiva, e quindi alla sua altezza. Proprio in quel momento, per prevenire un potenziale concorrente, lo sopprime per meglio dominare.
Salvo Vaccaro