Umanità Nova, numero 13 del 17 aprile 2005, Anno 85
La dottrina sociale della chiesa ha il suo inizio formale con l'enciclica Rerum Novarum, emanata da Leone XIII nel 1891.
Il documento vedeva la luce più di quarant'anni dopo l'uscita del Manifesto di Marx, vent'anni dopo la comune di Parigi e i moti insurrezionali di matrice anarchica che avevano scosso Romagna e Matese e, inoltre, in un momento di fervore insurrezionale del proletariato, che di lì a poco darà vita ai Fasci Siciliani e ai moti della Lunigiana.
La scelta rivoluzionaria del movimento operaio internazionale metteva in evidenza le contraddizioni del regime capitalista, il cui modo di produzione si basava sullo sfruttamento dei lavoratori e la ricerca del massimo profitto per i detentori del capitale.
La stessa chiesa, però, veniva messa in discussione dall'azione operaia, che ne smascherava la contiguità della dottrina morale alle esigenze dei capitalisti, la cui opera di sfruttamento si serviva della copertura e della benedizione della gerarchica ecclesiastica che, con la sua opera pastorale diffusa attraverso la propria capillare organizzazione territoriale, invitava gli sfruttati alla rassegnazione e all'attesa di una liberazione ultraterrena.
La chiesa istituzione, quindi, avvertiva l'impellenza di una presa di posizione rispetto a istanze sociali che ne mettevano in discussione insegnamento e collocazione politica e che rischiavano di fare breccia anche tra contadini e operai cattolici, abituati a sentir parlare (sia pure in termini astratti e moralistici) di un dio che si prendeva cura dei poveri e degli ultimi e la cui volontà sembrava essere rappresentata dal movimento operaio, più che da una chiesa gerarchica coinvolta nelle dinamiche dello sfruttamento padronale.
Nella Rerum Novarum Leone XIII si preoccupava di definire i diritti "naturali" dei lavoratori consigliando ai padroni, il cui ruolo sociale era dal papa ampiamente riconosciuto e valorizzato, di trattare umanamente i propri operai. L'anticapitalismo del papa non si spingeva oltre e, soprattutto, non si sognava neppure di mettere in questione il sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo; si limitava a invocare un'umanizzazione della condizione operaia completamente affidata al buon cuore dei capitalisti. Consegnava, quindi, l'agnello al lupo.
In compenso nei confronti delle organizzazioni socialiste l'anatema del papa era forte e chiaro, tanto da rendere poco credibile la tesi che vorrebbe la chiesa attestata in una posizione mediana tra capitalismo e socialismo.
Nel 1991, a due anni di distanza dal crollo del muro di Berlino, che simbolicamente aveva sancito la fine dell'esperienza del socialismo di stato, Giovanni Paolo II pubblicava la Centesimus Annus.
L'intento era quello di celebrare il centenario della Rerum Novarum,
ma soprattutto di rimarcare la lungimiranza della dottrina sociale
della chiesa, che aveva previsto e voluto la fine della dittatura
sovietica.
La Centesimus Annus è la terza enciclica sociale di Wojtyla, ed
è stata preceduta da Laborem Excercens (14/09/1981) e
Sollicitudo Rei Socialis (19/02/1988), che sostanzialmente non si
discostano dall'insegnamento tradizionale della chiesa in campo sociale.
Quello che caratterizza la Centesimus Annus è che l'episodio storico che la ispira (la caduta del muro, molto più che il centenario della prima enciclica sociale) mostra come il magistero sociale della chiesa sia nato in chiave anticomunista, con lo scopo di frenare il tentativo di emancipazione del movimento operaio. Nel 1989, quindi, quella scelta di campo veniva premiata dalla storia, o da coloro che sono abituati a scrivere la storia dei vincitori mettendo nello stesso calderone le speranze e le lotte del proletariato internazionale e l'ottusa e violenta dittatura stalinista.
Nelle prime pagine del documento Wojtyla descrive a tinte forti la condizione operaia di fine ottocento, sottolineando i gravosi ritmi di produzione cui gli operai erano soggetti nelle fabbriche, e che erano determinati unicamente dalla logica dell'incremento del profitto.
Il lavoro era stato trasformato in merce "che poteva essere acquistata e venduta sul mercato e il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell'offerta, senza tenere conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia". Di conseguenza la società era stata "divisa in due classi separate da un abisso profondo", situazione che favoriva la propaganda delle idee socialiste, non poche volte violenta, e metteva a repentaglio la pace sociale, minacciata dalla possibile rivoluzione sociale. Proprio la necessità di ristabilire la pace aveva spinto Leone XIII a condannare per primo la lotta di classe, pur essendo egli consapevole che "la pace si edifica sul fondamento della giustizia".
Wojtyla eredita e ripropone la condanna della possibilità di emancipazione operaia, concedendo agli sfruttati, come possibilità di emancipazione, la sola opzione della carità pelosa padronale. Le condizioni fondamentali che la dottrina della chiesa individua affinché sia garantita la giustizia sociale sono: il diritto degli operai all'associazione, la limitazione delle ore di lavoro, il diritto al riposo, il trattamento umano di donne e fanciulli rispetto agli orari e ai carichi di lavoro, il diritto al giusto salario.
Il quadro che si delinea è quello di un riformismo
"illuminato" - la cui ragion d'essere, già da fine ottocento,
risiedeva nel tentativo di trovare un'alternativa al programma
comunista rivoluzionario che metteva in discussione l'assetto politico
ed economico della società e l'idea stessa della divisione in
classi - che non va al di là al di là della
richiesta di un salario sufficiente al sostentamento della famiglia del
lavoratore. Ben poca cosa se paragonato alle richieste che la parte
più avanzata del proletariato aveva formulato e sostenuto con
lotte sempre più radicali.
Incalzata dalla crescita del movimento rivoluzionario la chiesa di
Leone XIII aveva giocato la carta del riformismo, risolvendo il
problema della contraddizione capitale-lavoro in termini strettamente
morali. Wojtyla, a sua volta, recupera il moralismo filosofico ed
astratto del suo predecessore e ne fa l'unica chiave di analisi del
modo di produzione capitalistico, facendo coincidere la giustizia umana
con la realizzazione della giustizia divina, perché "non
c'è soluzione della questione sociale fuori dal vangelo".
Infatti le questioni sociali possono trovare in esso il loro spazio di
verità ed una chiara impostazione etica.
In una posizione del genere manca, come sempre, il ricorso alle scienze sociali e a strumenti di analisi che non risolvano la questione sociale con un generico richiamo alla buona volontà dei ricchi, ma analizzino con chiarezza i meccanismi dello sfruttamento padronale e ne evidenzino cause e prassi di superamento.
Invece per la chiesa, oggi come ai tempi della Rerum Novarum, lo stato, attraverso l'azione dei ricchi benefattori e dei meccanismi di previdenza sociale, deve rivolgere agli operai, ai deboli, ai bisognosi cure e provvidenze. I poveri, gli sfruttati sono sempre oggetto delle cure dei benefattori, mai soggetto attivo della propria emancipazione sociale.
Al di fuori della strategia rivoluzionaria, infatti, non c'è spazio che per un riformismo che si risolve nel perpetuare all'infinito i meccanismi dello sfruttamento.
In questo quadro il ricorso alla giustizia, dopo che si è negato il diritto alla lotta di classe, è un puro esercizio di stile, reso ancor più inefficace dall'idea che questa sia un valore trascendente, di derivazione divina, piuttosto che una dinamica socio-politica non viziata da differenze di classe e meccanismi di sfruttamento.
Condanna della lotta di classe, difesa del "diritto naturale" alla proprietà privata e ratificazione del rapporto di lavoro salariato sono i capisaldi dell'insegnamento sociale di Giovanni Paolo II, attraverso i quali il capitalismo viene di fatto accettato come unico sistema possibile di organizzazione sociale degli esseri umani. Sottolinearne "severamente" l'aspetto materialistico, di mercificazione dei rapporti, di fatto non ne mette in questione la legittimità, perché per il papa la reificazione delle persone e dei rapporti è una degenerazione del sistema e non il cuore stesso di un capitalismo che produce in vista del profitto e non per soddisfare bisogni reali.
Il socialismo, al contrario, è "essenzialmente" viziato dalla
propria impostazione materialistica, di cui l'ateismo è logica
conseguenza.
In questo modo l'essenza stessa del socialismo non risulta riformabile
ed è destinata alla condanna senza appello della chiesa.
Nel ribadire la condanna della lotta di classe il pontefice sottolinea che dall'esperienza della caduta dei regimi dell'Est, dovuta ad una partecipazione non violenta di massa, si comprende come la teoria classista della liberazione sociale, che predica forme di lotta violenta, sia falsa e perniciosa. Gli imperi, secondo Wojtyla, si possono abbattere anche senza l'uso delle armi e della violenza. Se questo, naturalmente, è auspicabile (lo stesso Malatesta sperava in una rivoluzione che potesse limitare al massimo, se non abolire, l'impiego della violenza nel processo di liberazione), va comunque precisato che la partecipazione delle folle al processo di democratizzazione dei paesi dell'Est non aveva una caratteristica di classe, né assumeva le forme di una rivoluzione. Si è trattato piuttosto dell'implosione di un sistema politico-economico inefficiente, burocratico e da tempo in crisi, implosione che la partecipazione pacifica di massa ha più evidenziato che non procurato. In ogni caso anche in alcuni paesi dell'Est si sono viste scene di violenza, come nella Romania del dopo Ceausescu, dove il passaggio dal regime dittatoriale allo sfruttamento capitalistico è stato caratterizzato anche dalla violenza di strada. Eppure in questo caso la chiesa non si è strappata le vesti, né ha messo in discussione la legittimità del processo di liberazione dei rumeni.
La dottrina sociale della chiesa, infatti, sembra preoccupata della sola violenza operaia e questo perché i papi hanno scritto con l'obiettivo di fermare l'emancipazione radicale degli sfruttati. Per questo motivo non hanno potuto e voluto sottolineare come il sistema capitalistico, cui la chiesa affida le sorti dell'umanità tutta, si regga sullo sfruttamento del lavoro salariato e, di conseguenza, contrapponga tra di loro le classi sociali. La lotta di classe è un carattere intrinseco del sistema capitalistico, prima che una metodologia di liberazione. È la reazione di chi subisce una violenza, ma anche una prassi che riceve la propria giustificazione dalla dinamica reale del conflitto capitale-lavoro, in cui gli operai e i lavoratori tutti sono la parte debole e vessata. Di questa organizzazione classista e del lavoro i cristiani sono i primi responsabili, visto che nella loro storia non hanno certo disdegnato i posti di potere e l'uso della violenza che l'esercizio stesso del potere comportava. Questo, però, nelle encicliche sociali dei papi non c'è scritto.
Paolo Iervese