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Umanità Nova, numero 14 del 24 aprile 2005, Anno 85

Memoria Resistente
Con il fascismo nessuna pacificazione



Sessant'anni dopo. Come di consueto tempo di bilanci, con la novità più o meno odierna rappresentata dall'offensiva reazionaria tendente all'annullamento dell'importanza della lotta armata al fascismo, alla riscrittura del ventennio fascista (e della costituzione repubblicana), alla rivalutazione delle forze armate monarchiche. Tra trasmissioni televisive faziose, libri strumentali, intitolazioni di vie e piazze ad esponenti fascisti, si vogliono rilanciare in grande stile i valori di patria e nazione in una continuità di fondo tra l'Italia prebellica e quella odierna. La cosa ovviamente non ci sorprende in considerazione del ruolo che stanno giocando nel paese le formazioni di destra e della loro necessità di legittimazione, anche sul piano storiografico. E non ci ha nemmeno sorpreso a suo tempo l'uscita di un esponente della sinistra, come Violante, che in un intervento, ormai famoso, arrivò a giustificare le motivazioni di quanti si schierarono con la repubblica di Salò.

In realtà Violante si muoveva nel solco di una politica, quella della "pacificazione nazionale", che è stata una costante per il PCI e la sinistra parlamentare. Ed è su questo tema che mi pare significativo soffermarsi.

Propugnata da Togliatti, che da ministro della giustizia diede l'amnistia ai fascisti, questa politica è stata periodicamente agitata per dimostrare la vocazione nazionale e collaborativa dei comunisti italiani. In suo nome non venne nemmeno richiesta l'abolizione immediata delle leggi penali fasciste (il famigerato codice Rocco) all'indomani dell'insurrezione militarmente vittoriosa.

La "pacificazione nazionale" è stato lo slogan dietro il quale si è permessa la svendita dei contenuti liberatori ed emancipativi della lotta armata del 1943-45, la capitolazione di ogni volontà di cambiamento strutturale, la riconsegna delle aree "liberate" all'autorità statale (chiunque la impersonasse), la ripresa dell'iniziativa borghese.
Rispettare la memoria storica non vuol dire soltanto inchiodare i fascisti alle loro responsabilità ma anche sollevare il velo sulle ipocrisie di una sinistra che all'alleanza con il fronte capitalista ha sacrificato le migliori energie dei ribelli, di quanti cioè lottavano realmente per una società di liberi ed eguali.

Abbiamo sempre diffidato della retorica che è corsa a fiotti quando si celebrava l'antifascismo: in realtà essa è sempre servita ad occultare la realtà dell'integrazione della sinistra parlamentare nel patto di ricostruzione capitalistica nazionale. Avere delegato l'antifascismo ai professionisti della politica, ai burocrati dello Stato, ai pescecani della finanza è stato un errore di cui, tutti, ne paghiamo e ne pagheremo le conseguenze, sia in termini materiali che in termini di prospettiva ideale; sia in termini di qualità della vita che in spazi di agibilità politica. 

L'antifascismo di regime, strumentale, retorico ed inoffensivo, nel celebrare pomposamente i combattenti ed i caduti, ha affossato le vere ragioni della loro lotta, che erano lotta e ribellione all'autorità dello Stato-padrone. E le ha trasformate in volontà di lotta per la democrazia parlamentare...

Degradata progressivamente anche l'istituzione parlamentare, ridotta a pura appendice del sistema dei partiti, ad un certo punto è parso pure che l'antifascismo fosse il genitore di quel sistema economico-criminale che ha preso il nome di tangentopoli. Non deve quindi stupire che la destra più o meno fascista abbia trovato gli spazi per giocare le sue carte.

La vera lotta antifascista l'hanno fatta e la fanno quanti hanno deciso di rompere con le compatibilità del sistema, con le mediazioni della politica, siano stati in armi in montagna o nelle città, siano stati in piazza a Genova, a Licata, a Reggio Emilia, a Roma, a Palermo, a Catania nel luglio del 1960 o a Pisa nel maggio del 1972 con Franco Serantini, o a Milano con Giannino Zibechi e Claudio Varalli , o con Dax.

La critica anarchica dello Stato non permette dubbi di sorta: il rifiuto del totalitarismo, dell'assunzione del potere come strumento di trasformazione sociale, non permettono alcuna commistione di fondo con teorie e pratiche che dello Stato fanno il perno centrale del loro agire, sia in forma ultra-autoritaria, come nel caso del fascismo, che in forma democratico-rappresentativa. La lotta antigerarchica degli anarchici individua nello Stato, e nelle pratiche che gli fanno da contorno, il nemico principale: la semplice constatazione che diversi modelli statuali consentano diversi gradi di possibilità di espressione e di organizzazione non ci fa recedere da questa impostazione.

L'antifascismo anarchico è antistatalista e rivoluzionario; l'antifascismo democratico è una variante dello statalismo che solo nella rimozione delle sue forme più brutali e sanguinarie può legittimarsi.

Solo una corretta impostazione antistatale può favorire l'affermarsi di una risolutiva pratica antifascista alla quale, come sempre, gli anarchici daranno il loro contributo, senza retorica, senza strumentalizzazioni, ricordando le tante compagne e compagni caduto nella lotta insieme a quelli che non fermarono, il 25 aprile, alla democrazia, ma andarono avanti e per questo pagarono duramente con il carcere o con l'esilio una grande scelta di giustizia, di uguaglianza e di libertà.

max













































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