Umanità Nova, numero 14 del 24 aprile 2005, Anno 85
Negli articoli precedenti ho cercato di mettere in luce il ruolo illiberale del pontefice polacco: da una parte egli, attraverso la politica delle punizioni, ha impedito che la sua azione di rafforzamento dei poteri clericali potesse essere messa in discussione dalle frange più democratiche del cattolicesimo. Dall'altra ha dato un contributo non indifferente al rafforzamento del sistema capitalistico, ribadendo la condanna della lotta di classe e sostenendo la politica riformista di un sistema di produzione di cui si è limitato a criticare gli eccessi (che sono strutturali e non, invece, dovuti a momentanee amnesie della coscienza morale del padronato, come il rimbrotto paternalistico del magistero cattolico vorrebbe far credere), senza mai metterne in discussione le dinamiche e i reali meccanismi di sfruttamento.
La linea politica perseguita da Wojtyla è stata quella di riportare la chiesa decisamente dalla parte dei padroni, dopo le "sbandate" progressiste dovute alla mobilitazione politica che la società ha vissuto a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
Non credo però che lo schierare la chiesa dalle parte del capitalismo mondiale sia più che un obiettivo a medio termine nella politica vaticana. Di fatto questo papa non poteva che attestare la lontananza della dottrina sociale della chiesa dalle lotte e dall'emancipazione degli sfruttati (ridotti a destinatari delle premure del volontariato cattolico), rimarcando il proprio ruolo di consigliere dei potenti e tagliando le radici a quella chiesa popolare che il clima post-conciliare aveva favorito.
Le virulente battaglie contro le leggi liberali dello stato (aborto e divorzio) e contro la morale "sessantottesca" (caratterizzata da una radicale solidarietà egualitaria nei confronti della libertà di scelta in campo sessuale, e verso atteggiamenti anticonformisti e modelli familiari alternativi a quelli previsti dal catechismo cattolico), lasciano però presagire che l'obiettivo a lungo termine della curia romana non sia certo quello di limitarsi al ruolo di consigliera e madre spirituale del potere laico, ma piuttosto di presentarsi come interlocutrice di pari grado del potere statuale.
Fin dal sorgere dello stato liberale, la chiesa ha assunto nei suoi confronti un atteggiamento ambiguo, dipeso dalla volontà clericale di non cedere posizioni al potere laico. Già a partire dal Cinquecento, inoltre, la necessità di unificare l'Italia, in un momento in cui si delineavano gli equilibri geopolitici che ancora oggi caratterizzano lo scenario europeo, ha fatto sì che la chiesa si trovasse in una scomoda posizione, bene espressa da Machiavelli: troppo debole per favorire l'unità del paese, ma abbastanza forte da impedirla.
Questa situazione ha costretto la chiesa, in particolare quella ottocentesca, ad un'azione di retroguardia, che si è espressa nell'ostacolare veementemente i processi nazionalistici che, dal '48 in poi, avrebbero avuto sempre più carattere laico o, tutt'al più, teosofico (Mazzini).
Il potere che oggi conosciamo è figlio della cultura laica del padronato italico, stemperata dal dialogo inevitabile con le pretese del Vaticano: il compromesso che salvava capra e cavoli, la formazione di partiti di ispirazione cristiano-cattolica, ha rimarcato come la formula liberale della libera chiesa in libero stato fosse caratterizzata da un equilibrio precario, sorto di volta in volta come sintesi dei conflitti tra stato e chiesa.
Progressivamente la chiesa ha dovuto accettare di incidere sulla politica nazionale operando in secondo piano (fatto che comunque le ha permesso di presentarsi come organismo al di sopra delle parti, deputato soprattutto a difendere la morale comune dalle insidie del progresso), lasciando il lavoro sporco, quello della politica legata agli interessi delle classi dominanti, ai partiti di ispirazione cristiana.
La chiesa, quindi, è riuscita, in particolare dal Concilio
Vaticano II in poi, ad avere un'immagine sociale più "leggera",
d'opinione, quasi non fosse più interessata ad un intervento
diretto negli affari politici nazionali ed internazionali. Mentre i
partiti politici che la rappresentavano a livello di società
civile operavano attraverso una politica clientelare, attirando su di
sé l'odio delle classi sfruttate (o la loro gratitudine
interessata), e rappresentando la parte materialistica e compromessa
della struttura di potere, la chiesa si proponeva con modalità
efficaci di intervento sociale attraverso la "gestione del disagio",
l'organizzazione del volontariato, la creazione di un'immensa massa di
operatori sociali. La divisione di compiti tra potere laico e potere
clericale sembrava ormai un dato di fatto: si realizzava,
apparentemente, quella visione sociale che vedeva lo stato occupato a
gestire il potere temporale e la chiesa arbitra del solo potere
spirituale.
L'immagine con cui oggi la chiesa si presenta, infatti, ha ben poco a
che vedere con la reale ingerenza politica negli affari delle nazioni
"cattoliche", favorita dalla sua capillare infiltrazione nelle aree
disagiate della società civile e dalla capacità
comunicativa vincente, che ce la mostra come struttura dell'accoglienza
e della socializzazione, ormai lontana dall'immagine cupa che la
propaganda anticlericale di fine ottocento disegnava.
Wojtyla ha contribuito alla spettacolarizzazione della presenza
ecclesiale, riuscendo ulteriormente ad accreditare un'immagine positiva
della chiesa cattolica, tutta apparentemente tesa nello sforzo di
esplicitare il proprio compito morale e spirituale proprio mentre in
realtà portava avanti un progetto di rafforzamento del potere
clericale.
La forza con la quale il papa si è scagliato contro le leggi
più liberali dello stato, infatti, lascia presagire il tentativo
della chiesa di tornare a gestire direttamente il potere politico che,
con la fine dell'esperienza dell'unità politica dei cattolici,
rischiava di poter sfuggire dalle mani della curia romana e della
conferenza episcopale italiana, non più rappresentate da un
blocco politico unitario e asservito agli interessi dei papisti.
La capacità di Wojtyla è stata proprio quella di riuscire a portare avanti una politica solo apparentemente contraddittoria, rafforzando sia l'organizzazione teocratica della chiesa che la sua capacità di intervento nel sociale. Wojtyla ha dato l'impressione di esercitare un potere assolutamente e genuinamente spirituale nel momento in cui maggiormente la chiesa rafforzava la propria potenza politica.
Il forte consenso che egli è riuscito a guadagnare alla sua causa (e alla sua persona) non è legato direttamente al proprio magistero morale, ma sul consenso scellerato e superficiale della società civile a questo ha basato la possibilità di una rinascita politica della chiesa cattolica. Il credito che la pubblica opinione si dimostra disponibile a concedere alla chiesa di Giovanni Paolo II ha la capacità di imprimere una svolta radicalmente autoritaria alla politica italiana e internazionale.
Proprio a partire dalla rete di infrastrutture sociali che gestisce e dalla propria "milizia" radicata nel sociale, la chiesa cattolica oggi può confrontarsi con lo stato da pari a pari, avanzare richieste "pesanti" in termini di restringimento delle libertà civili e contribuire a imporre la propria visione morale, influendo pesantemente sulla possibilità di emancipazione delle classi sfruttate. Per la prima volta da quando il suo ruolo teocratico è stato limitato dallo stato liberale, la chiesa sembra potersi presentare nella società civile attraverso un intervento non più mediato dal potere secolare.
Il magistero morale di Wojtyla ha attaccato soprattutto la libertà individuale (la cui radice illuministica ne faceva un punto fermo - quantomeno a parole - della politica borghese), cercando di sminuire la capacità dell'individuo di scegliere secondo coscienza e accreditando come valida e realmente libera solo la scelta effettuata in sintonia con il dettato del magistero cattolico.
Le sue posizioni morali, quindi, avrebbero dovuto trovare pochissimo spazio in una società che ha conquistato diritti civili importanti, come la possibilità di interrompere un matrimonio che non funziona o impedire gravidanze indesiderate con la contraccezione.
Il paradosso che stiamo vivendo, e che come libertari dobbiamo denunciare con forza, risiede nel fatto che la società civile sembra inconsapevole di quanto il proprio consenso all'operato del pontefice scomparso mini quegli spazi di libertà che sono stati conquistati proprio attraverso una lotta culturale contro il magistero cattolico e la struttura politica della chiesa e di come l'accettazione della morale teocratica metta in discussione l'idea borghese di cittadinanza, quasi che tra le file degli entusiasti papisti campeggi la nostalgia di una sudditanza che sembrava relegata ad un lontano passato.
La chiesa va denunciata per quello che è: una rigida struttura di potere, illiberale e autoritaria, il cui ruolo sociale, lungi dall'essere improntato ad una difesa dei diritti degli ultimi e degli sfruttati, rafforza i meccanismi di sfruttamento e riduce gli spazi di libertà.
Il nostro impegno anticlericale dovrebbe tendere ad evidenziare la contraddizione lampante tra l'immagine positiva che la chiesa tenta di accreditare nella società e il suo ruolo liberticida, di propugnatrice di una società teocratica che gli stessi distratti seguaci di Wojtyla rifiuterebbero, nel momento in cui fossero costretti a confrontarsi con la realtà politica del magistero papale, piuttosto che con lo spot del buonismo clericale che i media diffondono con partigiana complicità.
Paolo Iervese