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Umanità Nova, numero 15 del 1 maggio 2005, Anno 85

Liberi ed eguali
Liberare il lavoro, liberare la vita, senza servi né padroni




Il lavoro salariato ha apparentemente perso di centralità nel dibattito politico e sociale, quasi che si sia realizzata la profezia dei cantori della fine del lavoro, cavallo di battaglia dell'ultimo scorcio del secolo scorso di una bella fetta di sinistra di movimento. L'articolarsi di un discorso sulla fine del lavoro era scaturito dal rifiuto del lavoro così come fino agli anni '70 esso si presentava e dalla necessità di realizzare se stessi nell'attività quotidiana, aspirazione negata dal ripetitivo lavoro industriale.

Nel contempo era già iniziato il processo di de-localizzazione dell'attività produttiva tendente a smembrare la grande fabbrica, nonché lo sfruttamento a fini di profitto di sfere dell'agire umano estranee alla normale attività produttiva: si pensi alla comunicazione, alla sua centralità nell'agire quotidiano e di come il mercato della comunicazione, molto più che quello della produzione di beni, sia oggi altamente profittevole per chi vi investa denari.

E notiamo come in questa nostra società dello spettacolo re-alizzato il nodo del rapporto capitale/lavoro e della irriducibile opposizione tra chi detiene e chi non i mezzi di produzione sia apparentemente obliato, assente.

Il modo di presentare i problemi dell'oggi, dalla guerra alle migrazioni dal quarto e terzo mondo al nostro, al ritorno in auge delle religioni monoteiste, prescinde totalmente dal conflitto capitale/lavoro. Il lavoro è diventato quasi un accidente, le sue traversie frutto della globalizzazione, parola feticcio con cui si esprime, mi pare, il concetto che il capitale va là dove è maggiormente remunerato: concetto vecchio quanto il capitale.

Se la guerra è frutto del terrorismo internazionale, armato ideologicamente da un'altra religione concorrente della nostra e la crisi economica frutto della globalizzazione e del fatto che la nostra ricchezza fa gola a quelli di quell'altra religione che anziché starsene al loro paese vengono qui ad invaderci, non vi è più spazio per un'analisi che faccia del conflitto lavoro/capitale il criterio guida.

Il fatto è che in questo modo il lavoro è alla mercé del capitale, sprovvisto del tutto di una difesa sul piano della rappresentazione collettiva: il lavoro è un problema individuale, mica un fatto sociale, sia nel suo essere abbondante che nel suo essere scarso. I migranti e i salariati nazionali restano soli nel corpo a corpo con il capitale, quasi che le peripezie di ciascuno per sbarcare il lunario non siano condizione comune, la cui soluzione andrebbe affrontata collettivamente.

Del resto così è sempre stato, non è che l'oggi sia diverso dal ieri per chi deve mantenersi con il proprio lavoro. Solo che oggi sono all'opera potenti strumenti di mascheramento della realtà profonda dei rapporti sociali ed è venuta totalmente a mancare una rappresentazione collettiva degli interessi degli sfruttati. Altri sono i fattori identitari, come i valori occidentali e il cristianesimo contro l'islam, noi contro di loro, noi liberi contro i terroristi oppressivi. Così la frattura reale che passa all'interno delle nostre società viene artificialmente colmata, negata, fatta sparire.

Il percorso del lavoro per riappropriarsi della propria identità e della rappresentazione di se stesso, pre requisito per un confronto all'altezza con il capitale, non sarà certo semplice. Ma in ogni luogo dove nasce un conflitto tra chi è sfruttato e chi sfrutta, vi è il germe di nuove relazioni sociali, perché è dal conflitto che nasce per il lavoro la riappropriazione di identità da cui può a sua volta nascere la forza sufficiente a ribaltare il rapporto di forza con il capitale. Lasciato solo nel corpo a corpo con il capitale, il lavoro ben può fare a meno di quelle rappresentanze che ora vivono di vita propria e che hanno fatto della compatibilità il criterio guida della loro azione. Nel ritrovarsi irriducibilmente diverso, il lavoro riacquista identità e autonomia, costruisce la sua strada verso la propria liberazione. Senza mediazioni, il lavoro ridefinisce gli spazi e i rapporti sociali a partire da se stesso, smantella le gerarchie politiche e sociali, fa di libertà e uguaglianza i principi del vivere quotidiano.

Simone Bisacca














































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