Umanità Nova, numero 15 del 1 maggio 2005, Anno 85
Gli avvenimenti delle ultime settimane hanno segnato un vero e proprio
salto nel senso di quella guerra civile che gli occupanti statunitensi
mostrano sempre di più di ritenere una prospettiva praticabile
allo scopo di ottenere il controllo che oggi non riescono a raggiungere
sull'Iraq. In questo senso è significativa la presa di posizione
di E. Luttvak, il cantore delle guerre americane che gli spettatori
televisivi italiani conoscono bene ma che negli USA è
considerato un liberal di sinistra. Quest'ultimo in un articolo sul
periodico "Foreign affairs" ha dichiarato che l'invasione e
l'occupazione dell'Iraq sono state un fallimento in termini assoluti
perché hanno impantanato la macchina militare a stelle e strisce
in una situazione senza vie di uscita, hanno leso il prestigio
americano nel mondo e permettono ai nemici di Washington di utilizzare
il paese mediorientale per assestare continui colpi agli Stati Uniti.
La soluzione che questa pretesa "colomba" propone all'amministrazione
Bush è quella di rinchiudere le truppe all'interno delle basi in
via di costruzione nel paese arabo, consegnare il potere a una
coalizione di sciiti e curdi e permettere lo scoppio di una disastrosa
guerra civile che impedirebbe all'Iraq di ritornare ad essere un paese
nel significato moderno del termine e costringerebbe i riottosi vicini
di Baghdad, come Siria e Iran ma anche l'Arabia Saudita e la Turchia
alleati sempre meno convinti delle politiche di Washington nell'area, a
invocare l'intervento e la presenza degli USA nel paese mediorientale.
In altre parole secondo Luttwak una bella guerra civile tra le
comunità religiose ed etniche irachene permetterebbe a
Washington di ribaltare l'attuale pantano nel quale ora sono costretti
dalla situazione sul campo e di ottenere la solidarietà dei
regimi locali compresi quelli dei paesi nemici, impauriti anch'essi dal
rischio di un effetto domino che ne minerebbe la stabilità
interna.
Quella che abbiamo riportato è la prospettiva che secondo Luttwak gli Stati Uniti dovrebbero fare propria riguardo all'Iraq occupato. I fatti sembrano andare nella direzione auspicata da questa "testa d'uovo" erede della tradizione pragmatica dei Kissinger e degli Shultz e avverso alla dimensione rivoluzionaria di destra rappresentata oggi dai cosiddetti neoconservatori. Il sei di aprile è stato eletto dall'assemblea nazionale uscita dalle recenti elezioni truffa il nuovo presidente iracheno: il leader dell'Unione patriottica del Kurdistan Jalal Talebani. Vice presidenti sono stati eletti uno sciita e un sunnita: rispettivamente Abdel Aduli Mahdi ex ministro delle Finanze nel governo provvisorio e uomo dell'ayatollah Al Sistani e Ghazi al Yawar, capo dello stato uscente e tipico esponente dell'american way of life in salsa irachena. Simile a quest'ultimo è il nuovo presidente dell'assemblea nazionale, il sunnita Hajem al Hassani, laureato in Connecticut in organizzazione industriale e direttore di una società di investimento immobiliare a Los Angeles. Tornato in Iraq si è rifatto una verginità avvicinandosi ai Fratelli Musulmani come ha fatto anche al Yawar. Il curriculum vitae di questi due esponenti della comunità sunnita la dice lunga sul ruolo che Washington intende riservare ai sunniti nella vita politica dell'Iraq occupato. Gli unici sunniti buoni sono quelli che hanno studiato negli USA e lavorano per società americane o direttamente per la CIA. In altre parole gli Stati Uniti stanno costruendo un ceto politico sunnita senza alcuna radice nel paese, senza rapporti sociali e fedeltà di classe o di clan, direttamente dipendenti dagli Stati Uniti e impossibilitati (sempre che lo vogliano) ad esprimere una propria volontà sul destino politico del paese. È evidente che questo ceto politico serve a due obiettivi: da un lato svolgere il ruolo di foglia di fico internazionale sul ruolo dei sunniti, dall'altro quello tutto interno di dimostrazione dell'impossibilità per i sunniti di esprimere i loro rappresentanti all'interno del quadro dell'attuale Iraq "democratico".
In altre parole si tratta di una sorta di propaganda con il fatto con la quale gli Stati Uniti stanno spingendo una delle comunità del paese sulla strada della guerra civile. Questo in un paese come l'Iraq dove le appartenenze di clan e di tribù e anche quelle di classe sono state sempre più importanti di quelle di comunità e di etnia. Certo l'operato prima degli inglesi, che imposero a Baghdad una dinastia regnante sunnita e di origini arabe come gli Hascemiti, e quello di Saddam Hussein dopo che represse in modo spaventoso i movimenti (allora) regionalisti curdi hanno segnato la storia del paese nel senso di creare divisioni laddove queste avevano scarsa importanza, ma fino ad adesso nessuno degli attori interni ed esteri che giocano i loro ruoli nel paese aveva mai cercato in modo così esplicito di armare l'una contro l'altra le comunità presenti in Iraq.
A chiarire il discorso è venuta poi la nomina a primo ministro di Ibrahim Jaafari, sciita e esponente di punta del blocco Sciri-Dawa che controlla più della metà del parlamento iracheno. Anche questa nomina che suggella il patto tra curdi e sciiti con la benedizione di Washington segnala la direzione che gli avvenimenti prenderanno: la presidenza a Talebani significa il via libera per i partiti curdi nella loro opera di pulizia etnica attualmente in corso a Kirkuk e a Mossul e il premierato agli sciiti depone nel senso di una massiccia sovrarappresentazione di questa comunità nei destini del paese.
La reazione dell'opposizione sia civile che armata all'occupazione è stata immediata anche se alcune delle dinamiche in atto danno ragione a Luttwak e ci sembrano andare nel senso della guerra civile così auspicata alla Casa Bianca. Il leader radicale sciita Moqtada al-Sadr ha, infatti, reagito in modo efficace convocando una manifestazione di diecimila persone contro l'occupazione che è terminata simbolicamente nella piazza un tempo occupata da una statua di Saddam Hussein il cui abbattimento venne mostrato dalla Cnn e da Fox TV in tutte le salse il 9 aprile di due anni fa. Proprio lì Moqtada ha tenuto un discorso durissimo contro gli americani e contro i membri della sua comunità che hanno accettato di partecipare e guidare il governo fantoccio dell'Iraq e ha richiesto la liberazione degli oltre diecimila prigionieri politici detenuti dagli USA. Questa mossa è chiaramente diretta a costruire un fronte ampio di opposizione comune a sunniti e sciiti e che prenda come punto qualificante del proprio agire politico la richiesta che gli americani se ne vadano dal paese. La guerriglia sunnita, invece, ha compiuto un salto di qualità con il rapimento di trenta miliziani sciiti dello Sciri, il partito dell'ayatollah al-Sistani. Mentre scrivo non sono a conoscenza dell'esatta dinamica dei fatti né della loro conclusione ma il significato mi sembra inequivocabile e va nel senso desiderato da Washington: sempre più gli iracheni si sparano tra di loro trasformando l'occupazione del paese in una guerra tra comunità per il controllo del potere centrale.
In questa prospettiva gli Stati Uniti sembrano aver preso esempio dalla gestione francese del Libano fondata sul contrasto tra le comunità artificialmente creato dagli occupanti con lo strumento dei favoritismi nell'accesso ai posti di potere e responsabilità, con i finanziamenti a determinati gruppi e con le discriminazioni contro altri. Quel sistema ha funzionato nel paese mediterraneo tanto che a sessant'anni di distanza dall'indipendenza del piccolo paese il Libano continua a non saper esprimere un ceto politico e una classe dominante nazionale mentre la comunità e i clan continuano a dominare la scena in alleanza con i potenti vicini siriani ed israeliani e soprattutto sotto la supervisione e il finanziamento di Francia e Stati Uniti. La ricolonizzazione moderna quindi non passa solo attraverso i carri armati e i missili occidentali ma anche attraverso la costituzione di una classe dominante locale sostenuta da comunità in aperto conflitto l'una contro l'altro e facilmente controllabile dagli Stati Uniti e dai loro vassalli europei.
Giacomo Catrame