Umanità Nova, numero 15 del 1 maggio 2005, Anno 85
Il dibattito sul precariato dopo anni durante i quali è rimasto
relegato all'interno del ristretto ambito dell'estrema sinistra
è finalmente esploso a livello nazionale. A tale risultato hanno
contribuito i dati che, complice l'evidente declino della struttura
industriale italiana e il mancato decollo di quella dei servizi, hanno
infine registrato il dato di realtà visibile da anni e
consistente nel fatto che l'economia italiana oggi si regge sul
radicale abbassamento del costo del lavoro ottenuto grazie alla spinta
precarizzazione dei contratti di lavoro, in particolare per i
lavoratori più giovani. Allo stesso tempo la prima
manifestazione nazionale sul tema svolta a Roma il 6 novembre, il
successo di quello che anno dopo anno è diventato l'appuntamento
nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici precari/e e cioè il
May Day milanese e, infine, la grancassa mediatica assicurata al tema
dagli espropri romani del 6 novembre hanno portato media e responsabili
politici e confindustriali ad occuparsi del fenomeno anche in chiave di
problematica per l'ordine sociale. I rinvii a giudizio per le azioni di
appropriazione di merci svolte a Roma e Napoli sono la faccia
repressiva e più evidente di questa attenzione della classe
dominante al tema, ma all'interno di quest'ultima non sono pochi coloro
che stanno iniziando a porsi il problema di come evitare che
l'accresciuta flessibilità lavorativa produca un surplus di
marginalità in grado di creare problemi seri di ordine pubblico.
La proposta di reddito di inserimento, salario di disoccupazione e
forme di garanzia del reddito rispondono a questa preoccupazione oltre
che a quella di svecchiare un modello di ammortizzazione sociale e di
assistenza pensata per un'economia in espansione capace di garantire la
quasi piena occupazione e centrata sulla collocazione lavorativa
operaia e impiegatizia come forma naturale dell'agire lavorativo umano.
L'attuale governo non sembra a onor del vero voler procedere rapidamente su questa strada sia perché i propri bacini elettorali esprimono interessi diversi e divergenti da quelli del precariato, sia per evidenti limiti connessi a un progetto di flessibilizzazione del lavoro senza contropartite caldeggiato dall'ex presidente di Confindustria D'Amato il quale pensava in modo preciso alla ristrutturazione dell'economia italiana sul modello coreano di produzione di massa ad alto valore aggiunto, basso tasso di innovazione, bassi salari e altissima precarietà. La nuova dirigenza di Confindustria, settori significativi del sindacalismo di stato e una parte consistente delle teste d'uovo del centrosinistra stanno, invece, orientandosi a progettare una riforma degli ammortizzatori sociali che vedrebbe la scomparsa della cassa integrazione e della mobilità per favorire la creazione degli strumenti descritti sopra. In altre parole la possibile vittoria elettorale del centrosinistra potrebbe determinare un'ulteriore flessibilizzazione del lavoro combinato con la costruzione di una rete assistenziale che permetterebbe al precario una forma di sopravvivenza nei periodi in cui non ci fosse lavoro. Niente di eccezionale, nel resto d'Europa questi strumenti sono attivi da anni e servono a garantire alle classi dominanti la pace sociale interna e saggi di sfruttamento variabili al servizio di un modello ormai flessibilizzato dell'accumulazione capitalistica.
In questo quadro ha assunto una certa rilevanza all'interno del piccolo mondo dell'estrema sinistra la parola d'ordine del reddito di cittadinanza e la proposta di costruzione del conflitto a partire da una soggettività costituita dal precariato come categoria in se esistente. Tale proposta viene dall'area operaista e, in particolare, dalla sua ultima propaggine ossia dai Disobbedienti e dal piccolo mondo di intellettuali e ricercatori che gli ruota attorno.
Dal punto di vista del sindacalismo di base, la CUB, che è anche tra le maggiori promotrici del May Day milanese, si è fatta carico di una proposta legislativa di reddito di cittadinanza a carattere regionale, ma estendibile anche a livello nazionale, dal titolo: "Fondo regionale per il sostegno al reddito per lavoratori precari, disoccupati, in cassa integrazione o in mobilità e pensionati della Lombardia". La proposta di legge contiene sia una parte emolumenti (il reddito diretto), pari a 250 euro, finanziati da soggetti pubblici e privati, questi ultimi sulla base dei risparmi che otterrebbero sull'assunzione di lavoratori a progetto, sia di reddito indiretto, sulla gratuità di alcuni servizi (trasporti urbani), sulla riduzione del 50% delle utenze per fornitura di elettricità, gas, acqua, telefonia fissa ed infine sui contributi per l'alloggio. I soggetti beneficiari di tale iniziativa di legge potrebbero essere 100.000 "precari" per un anno, o 200.000 per sei mesi o 400.000 per tre mesi, per un ammontare monetario di 300 milioni di euro.
Immediatamente, ma non a caso, emerge la difficoltà di
individuazione reale di tali soggetti beneficiari: tramite la
dichiarazione dei redditi (CUD, 730 o 740)? Oppure tramite
autocertificazione patronale (ISEE)? Redditi individuali o famigliari?
Siamo ancora una volta relegati alla certificazione, perlopiù
fasulla, IRPEF, sulla quale hanno naufragato centinaia di progetti
legislativi, o quand'anche fossero stati approvati hanno creato un
ginepraio di ingiustizie tali da far preferire le autoriduzioni alla
vecchia maniera.
Poi, i soggetti erogatori sarebbero il pubblico (carico maggiore anche
di reddito indiretto, quindi ripartito tra lavoratori comuni) e le
aziende private, non si capisce come, tramite i risparmi derivanti
dalle assunzioni a progetto. Perché ciò possa sussistere,
le aziende dovrebbero rinunciare agli sgravi contributivi derivanti da
quelle assunzioni e bisognerebbe innanzitutto capire perché lo
dovrebbero fare, e secondariamente come, dal punto di vista legislativo
nazionale, derogare una pessima legge su scala nazionale. Infine, tra
le righe, tale reddito di cittadinanza presupporrebbe la permanenza, da
cui il finanziamento, di forme contrattuali di cui si può solo
chiedere l'abolizione: co.co.pro e similari.
Tutte queste proposte nascono con due difetti di fondo che ne inficiano la credibilità. In primo luogo assume come dato acquisito l'esistenza del precariato (a volte definito anche come cognitariato per segnalarne l'alto livello di attività cognitiva ed intellettuale all'interno delle sue prestazioni lavorative) come soggetto dotato di una sua costituzione esprimente una condizione sociale separata dal resto delle soggettività sociali presenti all'interno del mondo del lavoro capitalistico. Su questa base e sulla scommessa di una capacità di mobilitazione e di rottura dell'ordine esistente presunta ma tutta da dimostrare di questa soggettività è stato costruito da questa area politica un programma rivendicativo che mira a rendere compatibile la condizione precaria con la possibilità di vivere decentemente all'interno della società capitalistica contemporanea. Al centro di questo programma troviamo la proposta del reddito di cittadinanza come forma di sostegno pubblico al reddito dei precari; la sua declinazione è naturalmente la più varia a seconda delle varie scuole di pensiero interne a questo paradigma, ma la sostanza cambia raramente: si tratta di creare una situazione di conflitto che costringa capitalisti e governanti ad affrontare la creazione di un nuovo patto sociale che abbia al centro lo scambio tra sicurezza delle condizioni di vita contro libertà di flessibilizzare il lavoro.
Si tratta, quindi, di un programma riformista che sposta dalla produzione alla società il terreno del conflitto e del confronto di potere tra le classi sociali.
Non è questo tuttavia a rendere poco attraente questa proposta quanto il fatto che essa astragga completamente dalla realtà dei rapporti di potere all'interno della società data; forme di garanzia del reddito ottenute sul terreno meramente sociale (combinando quindi il terreno del turbamento dell'ordine pubblico con quello della lobbyng elettorale) ed estranee al conflitto sui luoghi della produzione sono sicuramente obiettivi raggiungibili ma scarsamente assicurabili nel tempo. Quanto viene concesso può essere facilmente cancellato e la piazza non è sempre in grado di scaldarsi nel momento in cui manchi di riferimenti forti e di luoghi produttivi all'interno dei quali declinare il conflitto colpendo direttamente il primo interesse capitalistico, ossia la produzione per il commercio. In secondo luogo l'estraneità delle rivendicazioni dal terreno lavorativo rendono difficile individuare chi dovrebbe pagare socialmente l'istituzione di tali ammortizzatori: se questi venissero a sostituire le attuali forme di ammortizzazione verrebbero probabilmente messe a carico del meccanismo previdenziale così come succede oggi; traducendo in italiano corrente sarebbero gli stessi lavoratori e le stesse lavoratrici a pagare il fondo che ne permetterebbe il licenziamento in caso di eccedenza produttiva. In terzo luogo il rilievo più grave che si possa fare a questa proposta è quello di provocare indirettamente la radicalizzazione della flessibilità lavorativa all'interno dei settori produttivi. In altre parole la garanzia di una rete di salvataggio per i precari permetterebbe la precarizzazione dell'intera struttura produttiva nazionale favorendo un clima di pace sociale nonostante l'offensiva capitalistica in atto. Le conseguenze sarebbero gravissime con la consegna del terreno produttivo, terreno tuttora costituente la società capitalistica all'interno della quale viviamo, al dominio assoluto del capitale e del sistema d'impresa, cancellando ogni possibilità di espressione di una soggettività antagonista all'interno del mondo del lavoro. Il conflitto andrebbe definitivamente all'esterno del terreno del lavoro e consisterebbe in modo esclusivo in lotte rivendicative nei confronti della struttura pubblica per ottenere che una quota di ricchezza nazionale sia direttamente versata nelle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici eccedenti alle esigenze produttive, il tutto a prescindere dalla capacità di costruire conflitto all'interno del mondo del lavoro e di orientarlo nella direzione del ribaltamento dei ruoli sociali e delle logiche della produzione.
Sarebbe ora di tornare a vecchi progetti sindacali, tutt'ora pienamente validi, che, seppur muovendosi in un ambito riformistico, contengono, in nuce, alcuni elementi di una società altra, radicalmente anticapitalistica, comunistica e libertaria.
- Innanzitutto il riconoscimento dell'uguaglianza a fronte di prestazione lavorativa eguale: da ciò discende l'abolizione di ogni forma contrattuale che non sia a tempo indeterminato e subordinata, con garanzie annesse ed estendibili. Cancellazione dei contratti che creano discriminazioni d'età ed indirettamente di sesso (CIL, CFL). Riduzione dell'apprendistato alla sua "logica funzionalità" non estendibile al di sopra dell'anno lavorativo per ogni mansione, con obbligo di assunzione da parte aziendale. Eliminazione completa di tirocini, degli stage e delle prestazioni gratuite di lavoro: limitazione rigidissima del volontariato. Eliminazione dell'intermediazione privata di manodopera (interinali e tutti i soggetti abilitati dalla legge Biagi).
- Il livellamento verso l'alto dei salari diretti ed indiretti: compressione, sino al loro annullamento, delle differenze salariali costruite sulla base dello svolgimento di lavori manuali o intellettuali, tecnici o generici. Riconoscimento del valore - ora (eguale per tutte/i) contro valore - contenuto.
- Riduzione radicale dell'orario di lavoro a parità di
condizioni salariali, e redistribuzione del reddito tramite
redistribuzione del lavoro. Il reddito sarebbe, in questo caso,
interamente pagato dalle aziende e non dai lavoratori e verrebbe
mantenuta la centralità del conflitto capitale-lavoro. Riduzione
dell'orario significa oltre che riduzione giornaliera, anche riduzione
settimanale, mensile o annuale.
- Rivendicazione della gratuità per tutte/i dei servizi
pubblici: trasporti locali e nazionali, scuole di ogni ordine e grado,
sanità, dei servizi comunali etc.
- Rivendicazione della permanenza pubblica di tutti i settori sopraddetti
- Lavorare per l'autorganizzazione sociale e di classe sia nelle aziende che nelle strutture sindacali di base.
Se non puntiamo in alto, rischiamo di fare i ragionieri della rivendicazione sociale e, a proposito di ragionieri, sono più bravi quelli che ci comandano.
Stefano Capello
Pietro Stara