Umanità Nova, numero 16 dell'8 maggio 2005, Anno 85
Per capire la crisi del "fenomeno Berlusconi" bisogna tornare con la
memoria ad oltre dieci anni fa. L'operazione Mani pulite fu utilizzata
dal blocco dominante economico italiano per sostituire il vero e
proprio regime centrato su DC e PSI con un altro, non dissimile per i
suoi propositi di fondo, ma che "costasse" meno, e tenesse conto della
mutata situazione internazionale dopo il crollo del socialismo reale,
per cui l'Italia non poteva più consentirsi alcune, pur
limitate, libertà di manovra rispetto agli USA approfittando
della sua posizione geografico-politica nel confronto tra i "due campi".
Berlusconi precipitatosi all'interno di questo quadro dopo essere restato senza copertura politica indiretta ha cercato fin dall'inizio di rendersi amici i poteri che stavano ristrutturando l'Italia dimostrando però un eccesso di tatticismo e la mancanza di una vera strategia politica sia interna ed estera che economica.
La mancanza di strategia del personaggio riflette, in realtà, la carenza di un autentico blocco sociale su cui la destra potesse basare la propria forza d'urto. Il popolo delle partite IVA e l'insieme delle piccole e piccolissime imprese sono costituiti da milioni di persone, dotate però di scarsa intelligenza e lungimiranza politiche senza un gruppo dirigente economico di una certa forza e coesione, capace di esprimere o legarsi a gruppi politici anch'essi dotati di ampi progetti.
Berlusconi ha perso e in ogni caso il berlusconismo così com'è stato finora caratterizzato è finito per il suo barcamenarsi tra gruppi sociali e politici diversi, senza coraggio e decisione. La sua crisi significa il ritorno del vecchio gruppo dominante politico-economico che ha consentito lo sviluppo del nostro paese nel mezzo secolo susseguente alla seconda guerra mondiale e lo ha devastato e succhiato ponendo le basi per la sua futura subordinazione sul piano internazionale.
Questo gruppo dominante è costituito da un capitale bancario e finanziario particolarmente meschino e parassitario, inefficiente (con i costi dei servizi nettamente più alti che in tutti gli altri paesi capitalistici avanzati), legato ad una struttura di sostanziale appoggio agli interessi della finanza statunitense. L'apparente nazionalismo del Governatore della Banca d'Italia Fazio nei casi BNL e Antonveneta sembra più utile a favorire gli interessi finanziari americani intralciando la creazione di grossi e forti gruppi finanziari europei che non a reali interessi economici del nostro paese. Il tutto alla faccia della presunta fede europeista continuamente sbandierata da tutti i gruppi politici ed economici appartenenti alle classi dominanti.
Oltre al capitale finanziario del blocco economico dominante fa parte un grande capitale imprenditoriale abituato ad essere incessantemente assistito fin dai tempi di Giolitti. Paradigmatico il caso Fiat finanziata direttamente e indirettamente magari con lo sviluppo autostradale, con l'85% del traffico merci su gomma (mentre negli altri paesi occidentali vi è un rapporto molto migliore tra gomma e rotaia), con la svendita nazionalistica dell'Alfa (che la Ford pagava assai di più) effettuata dall'IRI di Prodi e via elencando. Adesso che siamo arrivati al capolinea e la crisi dell'impresa auto è totale si continua a battere cassa dallo Stato per riprendere la vecchia ricetta della socializzazione delle perdite.
Oltre alla Fiat sembrano sufficientemente decotte anche la Telecom e la Benetton che sopravvive alla crisi di quel settore "d'avanguardia" che è la maglieria grazie alle Autostrade (e all'aumento dei pedaggi, ancora una volta un multiplo di quelli dovuti in altri paesi). A parte questi pochi esempi (ma di imprese chiave), il resto della grande imprenditoria, salvo rare eccezioni, non sembra in buone acque.
L'unica alternativa alla politica del blocco finanziario-industriale è stata rappresentata negli ultimi anni dal duo Tremonti-Bossi che però non ha mai mostrato di avere una vera strategia non esprimendo un autentico blocco sociale esteso all'intero paese (da qui certe tendenze leghiste a volerlo smembrare). Tremonti ha portato un attacco determinato al Governatore della banca d'Italia tentando di incamerare le ampie ricchezze delle Fondazioni bancarie per finanziare opere infrastrutturali e la piccola impresa. Un impasto di liberismo di corto respiro perché fondato su una imprenditoria pulviscolare in settori non certo d'avanguardia e tanto meno strategici e di "pseudokeynesismo" affidato ad un "libero mercato" delle imprese. Come sappiamo Berlusconi non ha avuto il coraggio di affrontare lo scontro e ha cercato di ingraziarsi infine Fazio liquidando Tremonti e facendo una legge sul risparmio favorevole al primo.
Quanto sta accadendo sul palcoscenico del teatrino della politica ha una sua spiegazione e nasce dalla posizione del nostro paese all'interno della distribuzione internazionale del lavoro e della ricchezza. Entrati in quest'epoca di competizione detta globale in una situazione di bassa e insufficiente crescita economica, i gruppi economici dominanti hanno posto l'esigenza di una redistribuzione del reddito visto che non si produce sufficientemente per soddisfare tutti.
I gruppi finanziario-industriali già indicati hanno comunque molte incertezze in merito alla politica economica da seguire perché i vari interessi specifici di ognuno dei gruppi sono spesso divaricati fra loro. In ogni caso, i giochi che si svolgono all'interno dei gruppi dominanti non rispecchiano esattamente quelli tra le forze politiche; e del resto, nell'ambito di queste ultime, vi è molta trasversalità nel difendere gli interessi di questo o quel gruppo economico-finanziario. Il problema generale dei dominanti in questione è: chi far pagare prevalentemente nella redistribuzione del reddito nazionale, comunque in ogni caso a loro favore? I ceti lavoratori subordinati o il ricco ceto medio?
La risposta a tale domanda sfarina i blocchi di centro-destra e di centro-sinistra non appena al Governo. In questo momento, il primo è particolarmente dissestato da una prospettiva di politica economica a favore di questo o quello dei gruppi sociali che debbono essere maggiormente colpiti. Per entrambi gli schieramenti resta fermo il soddisfacimento delle esigenze dei gruppi dominanti di cui si è parlato. Questi ultimi però non hanno al loro interno completa identità di vedute, ognuno di essi vuole accaparrarsi la quota maggiore dell'assistenzialismo statale e sono divisi sulla scelta del raggruppamento sociale subordinato con il quale fare prima e più duramente i conti.
AN e UDC non possono non difendere il "pubblico impiego" nonché i meno favoriti ceti medi centro-meridionali vitalmente interessati ai "rubinetti" della spesa statale mentre Lega e buona parte di Forza Italia sono per un fantomatico liberismo, assai poco liberale, che dovrebbe favorire i grossi ceti medi soprattutto nordici dal reddito assai pingue.
Nel centro-sinistra esiste lo stesso problema, decisivo per la sua sopravvivenza politica, della ridistribuzione del reddito verso il blocco dominante. Tuttavia, a parte le crepe e contraddizioni da cui quest'ultimo è comunque attraversato, esistono i soliti contrapposti e difficilmente armonizzabili punti di vista per quanto concerne la politica da seguire al fine di trasferire reddito dalle classi sociali dominate (lavoratori dipendenti e ceto medio) ai gruppi dominanti in oggetto.
Per quanto riguarda la prospettiva delle classi dominanti italiane questa sembra sempre più quella di portare il paese a diventare una struttura di servizi industriali e finanziari all'interno della rete degli interessi imperiali statunitensi e in subordine europei.
La Fiat mira ad uscire con modalità morbide, ma ha bisogno della piena assistenza statale e della concertazione con i sindacati per farlo, dall'auto per dedicarsi a qualche prospettiva finanziaria o immobiliare come sta già facendo Pirelli da alcuni anni. Le altre grandi imprese industriali italiane non sono poi da meno. Le tanto vagheggiate imprese "medie" – la nouvelle vague del momento, il nuovo amore della Confindustria e degli economisti accademici – servono mirabilmente al progetto di struttura di servizio già indicata. I ceti medi imprenditoriali privati sono in fase di crescente tensione, faranno sempre maggior difficoltà a tirare avanti e una crisi strisciante e dolorosa, anche in termini sociali, si è imposta al paese. Tale tipo di crisi sta iniziando a mordere e sono in pieno corso le manovre per inventarsi un soggetto politico "di centro" che la gestisca nel migliore dei modi possibili per l'interesse dei gruppi dominanti finanziari ed imprenditoriali senza le tensioni che la composita rappresentanza sociale dei due schieramenti comportano per il loro ceto politico.
In questo quadro la difesa degli interessi delle classi subalterne e la costruzione di un blocco sociale antagonista al dominio dei gruppi finanziari-imprenditoriali non può che partire da un deciso attacco contro entrambi gli schieramenti politici, facendo comprendere ai nostri referenti sociali come essi siano il braccio politico di un blocco dominante parassitario che costruisce i propri profitti sullo smantellamento della struttura industriale e sulla redistribuzione della ricchezza verso l'alto.
Giacomo Catrame