Umanità Nova, numero 16 dell'8 maggio 2005, Anno 85
Sono passati ormai più di 35 anni dalla Strage di Stato. Era il
12 dicembre del 1969, infatti, quando alla banca dell'Agricoltura di
Piazza Fontana a Milano scoppiò la bomba che causò
diciassette morti e diede l'avvio alla cupa, criminale stagione della
strategia della tensione. Trentacinque anni di inutili, velleitari,
patetici tentativi della magistratura di arrivare a una soluzione
giuridica che trovasse un minimo di corrispondenza con quanto
diventò il sentire comune di tutto il paese, vale a dire che le
bombe le avevano messe i fascisti con la complicità e la
copertura dello stato.
Sappiamo come andarono i fatti, ma non sarà male cercare di ricapitolarli sommariamente. Dopo l'esplosione della contestazione studentesca, nel 1969 il rinnovo dei contratti di milioni di lavoratori registrò il saldarsi delle lotte proletarie con quelle studentesche. Il principio di autorità era quotidianamente sovvertito nelle scuole come nelle fabbriche e nei posti di lavoro e il tumultuoso affermarsi di una diffusa coscienza di classe metteva in pericolo gli equilibri politici nati coi primi governi di centrosinistra. Sembrerà strano rileggere quel periodo con le lenti di oggi, ma è un dato di fatto che la borghesia ricominciava ad avere paura e che il potere democristiano, fino ad allora inossidabile, vedeva messa in discussione la sua legittimità. Lo Stato doveva fare qualcosa per fermare questa deriva, e infatti lo fece. Attivando settori "deviati" dei servizi, manovrando la manovalanza fascista e lasciandosi manovrare dalla onnipotente Cia (non scordiamo che il mondo era diviso in due blocchi) cominciò a metter bombe. Prima, come prova generale, alla Fiera di Milano e sui treni diretti al sud, poi, più seriamente, quel 12 dicembre nelle banche romane e milanesi. Della strage, lo sappiamo, furono subito accusati gli anarchici, le belve assetate di sangue, i feroci emuli di Bresci e Ravachol rastrellati in tutta Italia per essere portati nelle questure. Valpreda, il mostro che fece tre anni di galera innocente, impedì il successo della montatura. E Pinelli, il ferroviere, per non essersi piegato alle minacce poliziesche, fu scaraventato dal quarto piano della Questura di Milano. La sua morte segnò la svolta, il suo dramma cominciò a far capire, e non solo agli anarchici e ai compagni di Lotta Continua, cosa stesse davvero succedendo. La strage era una Strage di Stato ordita da organi dello Stato per rafforzare lo Stato. E uomini dello Stato, i garanti della legalità repubblicana e della Costituzione, erano i diretti responsabili di quel crimine. Le stragi che vennero dopo, Brescia, l'Italicus, ancora Milano, Peteano, Bologna, non fecero che portare nuove conferme a quello che ormai tutti avevano capito.
Per trentacinque anni, in seguito, lo Stato ha finto di processare se stesso e di affermare un rispetto della legalità tanto grottesco quanto ridicolo. In una sequenza infinita di processi e controprocessi, assoluzioni e condanne, legittime suspicioni e trasferimenti, rinvii e ricorsi, primi gradi, appelli, cassazioni e via dicendo, magistrati d'ogni ordine e grado hanno svolto la parte loro assegnata, offrendo al pubblico delle aule dei tribunali uno spettacolo spesso indecente. Sarebbe troppo lungo, qui, rifare la cronistoria delle sentenze, e anche decisamente noioso: non c'è niente di più avvilente, infatti, di un'aula di tribunale quando vi si vorrebbe scrivere un pezzo della storia sociale di questo paese. E ora che finalmente, dopo oltre trent'anni, si è arrivati all'atto finale di questa drammatica farsa giudiziaria, con la definitiva assoluzione anche degli ultimi fascisti indagati, ridanno fiato alle trombe, sulle pagine dei giornali, alcuni dei protagonisti di quella stagione. E, guarda caso, si tratta di rappresentanti di spicco di tutte e tre le tre parti in gioco: magistratura, fascisti, potere.
Si comincia, in un'intervista sul Corriere, con il giudice milanese D'Ambrosio, famoso, ancor prima che per le inchieste su "mani pulite", per aver indagato, nei lontani anni settanta, sui neofascisti Freda e Ventura e avere inventato, con perversa fantasia, la sindrome da "malore attivo", di cui fu vittima il povero Pinelli "cadendo" dal quarto piano della questura. Rispondendo alle domande del giornalista, il giudice tira pesantemente in ballo, come "persone informate dei fatti" Pino Rauti e Giulio Andreotti, guardandosi bene, però, dallo spiegare in base a quali elementi giudiziari chiami in causa i due compari. Così che costoro, visto che il giudice non produce elementi di prova, si affrettano a rispondere da par loro.
Rauti, ovviamente, si dichiara estraneo alle trame nere che insanguinarono il paese, anzi!, fa di più. Con l'improntitudine che gli conosciamo, dichiara se stesso e i suoi camerati vittime delle trame statali che volevano criminalizzare destra e sinistra in base alla teoria degli "opposti estremismi". E fin qui ci siamo. Da tanto fascista non ci si poteva aspettare che il solito e vittimistico scaricabarile buono per incantare i gonzi di cuore tenero.
Ma anche Andreotti, con il perfetto stile mafioso di cui è
rispettato maestro, non si smentisce. O meglio, fa un piccolo
capolavoro. Con il linguaggio obliquo e curiale che lo accompagna fin
dal grembo materno, riesce infatti, in poche righe, a mandare una
sequela di messaggi trasversali a chi di dovere: alla magistratura che
non ha saputo trovare il bandolo della matassa, agli ex compagni di
partito compromessi fino al collo, ai fascisti di Almirante accusati di
aver fatto i pesci in barile, ai vertici dei servizi per avere sempre
ostacolato le indagini, agli avvocati degli imputati colpevoli di aver
fatto il loro lavoro e... agli anarchici: "Un dettaglio mi ha sempre
colpito. Il tassista che riconobbe Valpreda aveva annotato che
indossava un cappotto diverso. Si scoprì poi che Valpreda era
passato a casa di un parente e aveva cambiato cappotto. Un dettaglio,
ma di quelli che in poche righe possono contenere la chiave di un
giallo". Insomma, sembra incredibile, ma ancora gli anarchici!
Solitamente cerco di usare un linguaggio abbastanza educato e non
troppo offensivo, soprattutto per rispetto verso chi legge. A volte,
però, non posso impedire che questo aplomb vada a farsi
benedire. Ma quando ci vuole, ci vuole.
Le parole di Andreotti sono una porcata, un'immonda porcata che solo un equivoco mestatore come lui poteva pronunciare. Andreotti ritira fuori una presunta responsabilità degli anarchici e di Valpreda, rispolverando il tassista Rolandi, il più screditato e compromesso dei testimoni "imparziali" che dettero l'avvio alle indagini (Rolandi, "riconobbe" Valpreda, nel famoso confronto all'americana, come l'autore della strage, ma quando la sua testimonianza cominciò a fare acqua da tutte le parti, morì di lì a poco per una provvidenziale "polmonite secca senza febbre"). E questo significa solo voler ribadire che le carte migliori, in mano, le ha ancora lui. Che si sente tanto forte, e che è ancora depositario di segreti talmente sporchi da potersi permettere di dire le più grosse infamie senza farsi sfiorare dal ridicolo. E che in lui, re Mida capovolto, prospera ancora quel dono che lo ha reso famoso in Italia e nel mondo: quello di infettare tutto ciò che tocca.
Insomma, se voleva convincerci che, nonostante l'età, sa sguazzare nel letame come un tempo e che nel letame si trova ancora - c'era da dubitarne? - come "un pisello nel suo baccello", non si affanni, onorevole, non ce ne era bisogno!
Massimo Ortalli