Umanità Nova, numero 17 del 15 maggio 2005, Anno 85
Chi pensava che l'assurda sequenza di processi per la strage di piazza
Fontana si sarebbe conclusa in un modo diverso è sicuramente un
ingenuo o un inguaribile ottimista. La Cassazione il 3 maggio ha detto
basta: tutti a casa non ci sono colpevoli. Nemmeno gli ultimi tre
residuati bellici di quel periodo, il 1969 e anni successivi, in cui
neonazisti e neofascisti mettevano bombe e facevano stragi per cambiare
(e l'hanno cambiato) il corso della storia. Delfo Zorzi, Carlo Maria
Maggi e Giancarlo Rognoni non sono colpevoli. La Cassazione ha
confermato l'assoluzione della Corte d'appello. Così dopo 36
anni si torna a una strage senza colpevoli sul piano giudiziario. Non
ci sono abbastanza indizi dicono i giudici di Cassazione per annullare
la sentenza di assoluzione. A dire il vero e tanto per restare
sul piano giudiziario, gli indizi c'erano. Eccome. Tanto che in primo
grado i tre erano stati condannati all'ergastolo. Mentre Giovanni
Ventura e Franco Freda (i neonazisti ritenuti colpevoli nel 1979,
insieme all'agente dei servizi segreti Guido Giannettini) non avevano
potuto essere processati perché assolti definitivamente nel
1985. Però sia in primo (2001) sia in secondo grado (2004) il
giudici avevano riconosciuto la loro colpevolezza.
Adesso è proprio finita. Sul piano legale, giudiziario. D'altro canto era difficile che non finisse così. Fin dall'inizio questa vicenda è stata segnata da troppi interventi per depistare, per proteggere i responsabili materiali della strage. In questa storia sono coinvolti i vertici dello stato e del governo di allora (e di molti successivi), i servizi segreti per nulla deviati hanno assolto al loro compito: occultare, aiutare i colpevoli a fuggire all'estero. E poi, basta con questa storia di una parte dei servizi segreti deviati. Se il capo degli 007 italiani, Vito Miceli, era coinvolto nella strategia della tensione come si fa a sostenere ancora oggi che c'erano spezzoni del Sid deviati? Se l'Ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno era guidato da Federico Umberto D'Amato coinvolto nella strategia della tensione come si fa a sostenere che il ministro dell'Interno, Franco Restivo, fosse all'oscuro di tutto. Se il presidente del consiglio in carica il 12 dicembre 1969, Mariano Rumor, viene considerato un traditore da neonazisti e neofascisti che hanno messo le bombe perché non ha proclamato la stato d'emergenza, che cosa dobbiamo pensare? E l'elenco dei coinvolti ai vertici del potere istituzionale potrebbe continuare ancora per molto. Allora è chiaro che il famoso slogan coniato al Circolo Ponte della Ghisolfa il 17 dicembre 1969 durante una conferenza stampa («la strage è di stato») racconta la verità inconfutabile. Ancor di più oggi di fronte a questa sentenza che manda liberi tutti. Anche se molti responsabili sono morti rimaneva un problema istituzionale: la condanna delle ultime ruote del carro (Zorzi, Maggi, Rognoni) avrebbe comunque lasciato aperto il sospetto. Un bel taglio netto chiude i conti con il passato. A livello istituzionale, certo. Ma è quello che i «padroni del vapore» potevano sperare di ottenere. E l'hanno ottenuto. Sul piano storico e politico le colpe sono chiare. Chiare, certo, fino alla prossima ondata di revisionismo storico. Quando qualcuno comincerà a sostenere che forse Valpreda non era del tutto estraneo alla faccenda. E Giulio Andreotti, infatti, replicando a un'intervista a Gerardo D'Ambrosio sul Corriere della Sera, ha sostenuto che lo turbava ancora il «mistero del cappotto scambiato di Valpreda». Una minuzia ridicola che adesso fa sorridere di scherno, ma aspettate qualche anno e poi forse qualche solerte storico smanioso di fare carriera comincerà a tirare fuori «documenti inediti». Staremo a vedere.
Luciano Lanza