Umanità Nova, numero 19 del 29 maggio 2005, Anno 85
"Andare all'inferno è come cadere in un'imboscata"
(Il Corano, LXVII, 7-8)
Ogni giorno le notizie provenienti dall'Iraq indicano, nonostante la
censura militare, che la guerra divampa, certo una guerra molto diversa
da quella ipertecnologica e vincente propagandata dai media Usa. Vi
è infatti un'estesa ed articolata guerriglia che realizza un
crescendo di attacchi, sabotaggi, attentati contro l'occupazione
statunitense, le truppe occidentali, i mercenari privati stranieri e i
soldati del governo nazionale: "Hanno tentacoli che arrivano
dappertutto nel nuovo governo e nelle nuove forze armate", ha ammesso
sconsolato il gen. Walter Buchanan, che comanda le forze aeree Usa nel
Golfo Persico.
Oltre alla guerriglia, vi sono incessanti azioni terroristiche, sconfessate persino dai gruppi armati iracheni, che seminano indiscriminatamente morte, destabilizzazione e odio tra le diverse componenti sciite, sunnite e curde.
La matrice e la logica di questi attentati, sovente suicidi, appaiono in realtà difficili da individuare e le varie parti in conflitto se ne rimbalzano la responsabilità; anche se la popolazione civile martoriata tende comunque ad attribuirne la colpa all'occupazione Usa.
Dopo oltre 100 mila vittime irachene, la resistenza alla dominazione militare è diventato un fenomeno generalizzato. Quasi ogni iracheno ha un parente o un amico che è stato incarcerato o assassinato dall'esercito statunitense: questo è il principale motivo per cui l'80% della popolazione irachena non tollera più l'occupazione.
Continuamente sotto tiro, una crescente percentuale dei 150.000 iracheni assoldati e frettolosamente addestrati dalle truppe Usa ed alleate sta disertando, sovente ingrossando le fila degli insorti. I funzionari governativi, falcidiati da attentati mirati, tengono incontri e conferenze stampa in scenari surreali. Fuori dalla "Green Zone", le sedi dei partiti e gli edifici governativi sono circondati da trappole anticarro, muri anti-esplosione in lastre di cemento e milizie private che maneggiano mitragliatrici e AK-47. Perfino il personale governativo meno importante si sposta di fortino in fortino in convogli di veicoli Humvee pesantemente armati.
D'altra parte gli occupanti usano gli arruolati della Guardia Nazionale Irachena come controfigure: a loro sono affidati i lavori più sporchi e pericolosi, per questo la popolazione considera alla stregua di collaborazionisti i membri della GNI e ancor più odia la polizia.
I trasporti sono paralizzati, e le infrastrutture basilari dell'Iraq (strade, ponti, centrali elettriche, impianti per il trattamento delle acque, giacimenti petroliferi, oleodotti e terminali petroliferi) rimangono pesantemente danneggiati dalla guerra. Secondo fonti Usa, gli attacchi della resistenza vengono aiutati da una larga rete di informatori. I ribelli, utilizzando apparentemente ingegneri ed ex insider, sono stati infatti capaci di colpire "scientificamente" installazioni petrolifere e centrali elettriche, frustrando gli sforzi Usa di mantenere le esportazioni di petrolio irachene e di produrre elettricità e acqua potabile.
Il costo della guerra per gli Usa adesso è giunto a 192 miliardi di dollari, crescendo di 1 miliardo di dollari a settimana, e i cadaveri si stanno accumulando anche tra i "vincitori": oltre 1.600 perdite dichiarate tra i militari statunitensi (anche se, con ogni probabilità, bisognerebbe aggiungere uno zero), assieme a circa 180 soldati alleati e 230 contractor privati.
Le formazioni della guerriglia sono ormai in grado di abbattere elicotteri e distruggere carri armati (compresi almeno 80 supertanks Abrams) nonché attuare azioni su vasta scala con numerosi combattenti, tanto che appare più che verosimile (per non dire una certezza) il fatto che forze esterne all'Iraq stanno fornendo copiosamente uomini, finanziamenti e armi, per mantenere nel "pantano" i registi della guerra globale.
Con la partenza ai primi di maggio di 462 soldati bulgari inseriti nella forza multinazionale questa si è ulteriormente indebolita. Le forze di occupazione comprendono più di 150.000 soldati, ma ormai al 90% statunitensi. Arrivando poco dopo quello dell'Ucraina, che ha annunciato che tutto il suo contingente di 1.650 soldati sarà rimpatriato "prima di ottobre", il ritiro bulgaro da qui alla fine dell'anno non è stata certo una buona notizia per Washington.
Dall'inizio dell'invasione, nel marzo 2003, la "larga coalizione dei volenterosi" di cui si vantava Bush II alla vigilia dell'aggressione, non ha smesso di ridursi. C'erano 44 paesi che contribuivano con truppe o con mezzi militari il 20 marzo 2003, non ne sono presenti che una ventina adesso, contando anche i 30 soldati del Kazakhistan, i 32 della Macedonia o i 46 dell'Armenia.
Lasciando da parte la Romania, che ha annunciato a marzo l'aumento del suo contingente di un centinaio di uomini, e l'Albania, che ha appena aumentato il suo contingente da 70 a 120 uomini, solo l'Ungheria, che ha ritirato i suoi 300 uomini alla fine del 2004, ha deciso il rinvio in Iraq di 35 soldati, ma "per recuperare gli equipaggiamenti militari lasciati lì a dicembre". Tutti gli altri paesi della coalizione, Stati Uniti compresi, cercano più o meno apertamente il modo di tirarsi fuori dalla trappola irachena.
A seguito del ritiro della Polonia, dell'Ungheria e adesso della Bulgaria, non restano sul posto che la Slovacchia con 103 soldati, la Repubblica Ceca con 80, la Lettonia e la Lituania con 120 uomini ciascuna, e l'Estonia che mantiene i suoi 55 soldati sul posto.
Dopo la partenza dei soldati spagnoli nell'aprile 2004, su decisione di Zapatero, poi il ritiro dei 127 gendarmi portoghesi in febbraio e quello di 1.400 soldati olandesi in aprile, l'Europa non è rappresentata sul terreno iracheno che dalla Danimarca (525 soldati), dalla Gran Bretagna, secondo contribuente di truppe per la forza multinazionale con 8 mila uomini, e dall'Italia con circa 3 mila soldati, di cui si va sempre più spesso annunciando il ritiro.
La guerra ha prodotto guerra, la morte ha chiamato morte.
U. F.