Umanità Nova, numero 20 del 5 giugno 2005, Anno 85
Chi ha un nemico non ha quiete.
(Proverbio arabo)
Mentre le pagine stampate e quelle televisive si riempiono
quotidianamente delle scene di guerra e morte in Iraq, il conflitto in
Afganistan rimane fuori dai giochi della cosiddetta informazione,
eppure in questa area la politica Usa sta registrando forse una
sconfitta strategica ancora più grave.
Dall'inizio di marzo all'ultima settimana di maggio, vi sono
ufficialmente rimasti uccisi 27 militari statunitensi; nello stesso
periodo le perdite dichiarate in Iraq sono state 124, quindi in
rapporto al numero di truppe Usa dislocate su i due fronti (circa 135
mila in Iraq, contro le 16.700 in Afganistan), il tasso di perdite
umane in Afganistan risulta attualmente quasi il doppio rispetto a
quello in Iraq.
A conferma del precipitare della situazione le poche notizie di cui
è possibile disporre danno conto di continui scontri nel sud
dell'Afganistan, con attacchi di considerevoli dimensioni da parte
della guerriglia ed incursioni tattiche dall'aria con elicotteri da
combattimento e cacciabombardieri Usa. Un gruppo di consiglieri
militari inglesi ha ritenuto necessario l'invio di ulteriori 5.500
soldati britannici per cercare di arginare quello che ormai viene
definito un "totale fallimento strategico", a tre anni dalla caduta del
regime talebano.
Come è risaputo, tra le principali cause dell'aggressione e dell'occupazione militare statunitense dell'Afganistan vi era un complesso intreccio di interessi economici e geo-politici che vedevano al centro i progetti riguardanti la costruzione di importantissimi oleodotti e gasdotti, dopo che erano andati a monte gli accordi tra la compagnia Unolocal e il regime talebano.
Ma quel progetto rimane a tutt'oggi sulla carta in quanto reso impraticabile da un contesto in cui la guerriglia e le diverse milizie claniche rimangono padrone di gran parte del territorio, da un governo nazionale debolissimo e dal persistente strapotere dei locali signori della guerra e del narcotraffico, mentre anche la popolazione civile - costretta a condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza - inizia a ribellarsi apertamente contro gli occupanti responsabili anche di sequestri, esecuzioni e torture.
Per cercare di comprare la "collaborazione" o quanto meno la "non belligeranza" dei potentati locali il governo Usa (lo stesso che in patria fomenta il proibizionismo più ottuso) ha permesso la ripresa in grande stile della produzione e del commercio dell'oppio. Tale capitale "illegale" rappresenta almeno la metà del prodotto interno lordo dell'Afganistan, confermando non solo come la produzione e il commercio dell'oppio e dei suoi derivati rispondono perfettamente alle leggi del mercato capitalistico, sfruttamento della manodopera compreso, ma anche mostrando l'enorme potere derivante dalla produzione che permette le più alte accumulazioni di profitto possibili.
Da parte sua il governo Karzai ha persino concesso una larga amnistia ai ribelli, non escludendo neppure il mitico mullah Omar leader dei taleban, né il potente Hekmatyar, signore della guerra ed ex-primo ministro ritenuto il mandante di vari tentativi di eliminare lo stesso Karzai.
Ma anche le trattative per la liberazione della volontaria italiana Clementina Cantoni hanno evidenziato che il controllo di quanto avviene in Afganistan non è certo in mano al governo.
Persino l'ineffabile ministro della Difesa italiano Martino ha definito la situazione in Afganistan "fortemente preoccupante" e, ad onor del vero, va detto che da parte sua non ha mai minimizzato la pericolosità di tale fronte, anche se tale consapevolezza continua a contraddire il crescente impegno politico-militare dello Stato italiano in terra afgana. Infatti, come già anticipato su queste pagine, da agosto, l'Italia rileverà il comando del contingente Isaf-Nato e il numero dei militari italiani è destinato ad essere raddoppiato. A dare il cambio all'attuale comando turco, sarà il Nato Rapid Deployable Corp con comando a Olgiate Olona (VA) il cui quartier generale si trasferirà nella base militare di Herat.
Eppure l'opposizione a tale intervento militare continua a non figurare in alcuna agenda politica della sinistra, ma neanche all'ordine del giorno delle assemblee contro la guerra.
U.F.