Umanità Nova, numero 22 del 19 giugno 2005, Anno 85
Quante volte abbiamo avuto un moto di solidarietà verso popolazioni distanti da noi in ogni senso e che pur tuttavia vogliamo in qualche maniera aiutare inviando loro un po' di denaro o qualche vecchio giocattolo ancora funzionante o qualche capo di abbigliamento ancora decoroso? E quante volte non abbiamo saputo a chi dare con un minimo di garanzia che il nostro gesto arrivi a destinazione senza perdersi per strada?
Stiamo parlando di solidarietà internazionale tra popoli e
società non mediata da una affinità ideologica che ci
porta a sostenere i compagni e le compagne anarchiche dappertutto,
secondo le nostre capacità e i nostri livelli di conoscenza
delle realtà altrui. Spesso, dietro pressione mediatica,
vorremmo dare qualcosa del nostro superfluo a chi può avere
bisogno o fare un uso migliore (o semplicemente un uso non ancora
dismesso per moda….). L'individuazione dei soggetti idonei a praticare
da mediatori interculturali su un piano materiale la nostra intenzione
si presta a difficoltà non solo meramente conoscitive, ma anche
legate alla nostra capacità di districarci nel mare delle onlus,
delle ong, del noprofit, del privato sociale, per non parlare delle
parrocchie e delle confraternite.
La cooperazione: diversità di stili, diversità di
orizzonti teorici
Il mondo della cooperazione internazionale è, grosso modo,
diviso sia sul piano di una pratica di condotta (sostenere progetti
destinati a sviluppare condizioni di vita migliori, oppure sostenere
progetti di breve respiro destinati a tamponare crisi emergenziali),
sia su un livello di ideologia di riferimento, sempre più
sbiadita a dire il vero, ossia quella cristiana (da noi cattolica, ma
non sempre appiattita sulle posizioni geopolitiche e sociali del
Vaticano) e quella terzomondista (marxista ma sempre meno pronunciata,
laica e legata ai partiti della sinistra istituzionale per lo
più). Tale divisione risale all'epoca della formazione dei
gruppi di solidarietà internazionale, nati sull'onda della
formazione di paesi indipendenti decolonizzati a cui garantire comunque
un supplemento religioso in continuità di fede con il precedente
regime, e di cui sostenere l'indipendenza nazionale tanto politicamente
a distanza, quanto materialmente nei fatti, con gesti e atti di aiuto
allo sviluppo concreti.
Dal Piano Marshall alle ONG
Vero è che la prima grande operazione di cooperazione internazionale allo sviluppo del XX secolo è stato il Piano Marshall, che ha segnato un modello interstatale di riferimento tutt'ora in auge (Iraq e Palestina), ma da ciò si origina quel filone di interventismo postcoloniale con il denaro degli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (e un po' meno con le armi dell'oppressione diretta) che alimenta i fondi di bilancio, destinati a Ong, dell'Unione Europea e dell'Italia (penultima nel mondo ricco con appena lo 0,15% rispetto al PIL dedicato alla cooperazione internazionale, ultimi gli Usa, mentre l'Onu sin dal 1970 dava l'indicazione ai 29 paesi ricchi e industriali dell'Ocse di raggiungere lo 0,70% rispetto al PIL, cosa che fanno solo Canada, Svezia, Norvegia e Danimarca).
L'evoluzione delle diverse normative nazionali e poi comunitarie ha
reso disponibili i fondi della cooperazione ai soggetti privati,
accreditati con esperienza triennale sul campo e riconosciuti dalle
istituzioni, quali sono le Organizzazioni non governative, la cui vita
dipende tuttavia dagli stanziamenti governativi, oltre che dalla
capacità di raccogliere fondi per vie proprie (Fund Raising
privato). Tale opportunità, da un lato rende ricattabili le ong
strette dalla morsa finanziaria dei ritardi nel riversamento delle
risorse finanziarie per i progetti autonomi sottoposti ai bandi di
finanziamento e quindi approvati dall'autorità competente
(Ministero Affari esteri, Commissione europea, e di recente, anche da
parte di enti locali abilitati a fare politica estera con progetti di
cooperazione decentrata); dall'altra però rappresenta uno storno
di risorse dei cittadini che vengono riutilizzati da cittadini
organizzati in associazioni, sia pure legittimate quanto a
serietà progettuale, capacità di sostenibilità
amministrativa (il finanziamento del progetto non copre quasi mai la
totalità dei costi del progetto), competenza professionale.
Una fatica di Sisifo
L'impressione che il lavoro delle ong rappresenti una fatica di
Sisifo è forte, tanto è ampio il mare dello sfruttamento
concreto da svuotare con il cucchiaino del progetto di minicredito alle
donne o del pozzo di acqua potabile da costruire per il fabbisogno di
un villaggio sperduto o della formazione di operatori scolastici per
l'alfabetizzazione degli indigeni. Tuttavia, visto il degrado e
l'abbandono con cui quelle popolazioni, maggioritarie nel pianeta, sono
state tenute prima e dopo l'esperienza di asservimento coloniale,
piccoli progetti, auspicabilmente integrati tra di loro in reti
consortili, gestiti direttamente dalle comunità locali e
protratti nel tempo senza adottare la dinamica burocratica del mordi e
fuggi, riescono a toccare e incidere su esistenze concrete di uomini e
donne, bambini e anziani. Non si trasformerà il mondo o le cause
del loro degrado ma le si aiuta a vivere meglio potendo metterli in
condizione di pensare a se stessi anche senza l'aiuto di noi ricchi e
potenti (che pure dovremmo restituire il debito di secoli di
oppressione coloniale).
Organizzazioni "troppo governative" a fianco degli eserciti invasori
Beninteso, la cooperazione internazionale allo sviluppo sconta
l'equivoco dello sviluppo legato a una concezione di mercato
capitalista, appiattito sulla crescita economica indicata da parametri
quantitativi altrettanto diseguali e asimmetrici di quelli in vigore
sin dai tempi del pollo di Trilussa. Il danno maggiore, però,
sta avvenendo in questi ultimi dieci anni, in cui il potere politico,
consapevole che consentire, con i propri fondi sottratti con le tasse
ai cittadini, istruzione e salute alla maggioranza del pianeta, teme
che tutto ciò possa ritorcersi contro, grazie alla coscienza
acquisita una volta calmati gli sfinimenti della carne (malattie,
pandemie, povertà, fame e miseria non consentono una
politicizzazione autonoma a nessun individuo, costretto a cercare forme
di sopravvivenza quotidiana come sfida mortale perenne), scatenando una
controguerra al mondo ricco e potente. Che appunto in quanto tale, non
solo porta guerra, ma in più destina i fondi per la cooperazione
allo sviluppo per coprire i danni emergenziali del terrore
deliberatamente scatenato per permettersi un tenore di vita altissimo
sulla pelle altrui. Solo le armi tutelano rispetto ad una eventuale
ribellione della maggioranza della popolazione mondiale, e quindi chi
intende cooperare deve adattarsi, trasformando la ragione sociale
originaria del moto di solidarietà fattiva per aiutare popoli a
rialzare la testa, a fare da intendenza civile alle operazioni di
guerra umanitaria, congiungendosi alla politica governativa (il mondo
anglosassone ha già coniato l'espressione di svolta: da
"non-governative organizations", appunto ong, a "too-much governative
organizations", ossia organizzazioni troppo governative…).
Le "emergenze" distolgono fondi dalla cooperazione non assistenziale
La deriva emergenziale distoglie fondi per la crescita degli assi di sviluppo sostenibile (alimentazione, sanità, istruzione soprattutto) per concentrarsi sui fattori di sfascio derivati dall'intervento del mondo ricco e potente nelle varie aree del pianeta, sia sul piano militare che politico. Guerra e campi profughi da far gestire ad ong private e alla Croce rossa internazionale, guerra ed ospedali che salvano la vita, guerra e ricostruzione dopo la distruzione non disinteressata, rappresentano emblematicamente la fine della cooperazione e l'inizio della cooptazione della solidarietà internazionale subordinata alla politica estera dello stato. Corsi di laurea finanziati dai Ministeri della difesa in cui si insegnano i diritti umani in condizione di emergenza servono a lenire la coscienza ferita dalle immagini televisive trasmesse ad ogni ora del giorno, per far mettere mano al portafoglio o al cellulare (1 sms da 1 euro a favore di…), e per rifinanziare così quelle stesse operazioni militari che oggi trovano nell'aggettivo umanitario non solo l'alibi di sempre (anche lo sterminio degli indios latinoamericani era un effetto collaterale della dichiarata missione di civilizzazione cattolica manu militari), ma altresì una forma di coinvolgimento buonista dei sentimenti popolari di popoli ricchi e potenti, dalla coscienza inquieta (ma non per molto, dato il livello di mobilitazione totale tipico delle "democrature" odierne, come dicono gli spagnoli) e dalla voglia di assecondare, con metodi da società civile, quanto la società politica produce con la pratica di dominio e oppressione più collaudata di sempre, anche se miope: la guerra.
Massimo Tessitore