testata di Umanità Nova

Umanità Nova, numero 24 del 3 luglio 2005, Anno 85

Iran: la vittoria elettorale di un ultraconservatore
Sotto il cappello dei preti e la minaccia degli USA



La vittoria di Mahmoud Ahmedinejad, 49enne ultraconservatore sindaco di Teheran, primo presidente non clericale, dimostra, qualora ce ne fosse bisogno per noi anarchici, ma soprattutto per i non anarchici che ci stanno leggendo, quanto poco rilevante sia una pratica elettorale democratica se innestata in una società illiberale, e addirittura teocratica come quella islamica attualmente vigente in Iran. Infatti, anche se c'è stata competizione vera, anche se brogli e corruzione sono nella norma – nessuno può ergersi a puro, nemmeno gli Usa del golpe giudiziario del dicembre 2000 o del peso preponderante dei finanziamenti privati ai candidati presidenziali – il tasso di astensione pure fisiologico è frutto non di una (salutare) apatia degli elettori, in gran parte giovani non rappresentati dai contendenti in lizza, bensì di un ricatto esercitato dal clero sciita, i pasdaran della rivoluzione islamica, autonominatisi tali per sorte divina, che non contenti di decidere chi debba candidarsi o meno in base a regole di dubbia moralità (dato il livello di corruttela pure al loro interno, Rafsanjani incluso) o persino di allineamento politico, hanno esercitato forti pressioni clientelari (compravendita di voti soprattutto) e minacce non tanto velate (altro che doppio senso!), ad esempio, sulla concessione di passaporti o sull'esito degli esami universitari (sic!).

Un paese isolato politicamente e accerchiato militarmente

Il nuovo presidente, che pur ha poteri limitati rispetto agli mullah del Consiglio dei guardiani - sufficientemente accorti da candidare in loro nome un laico e farlo vincere a mani basse - ed all'ayatollah supremo, Ali Khamenei, avrà come compito sostanziale, al di là degli affari interni di governare una società spaccata tra bigotti e fasce giovanili occidentalizzanti, di far uscire l'Iran dall'isolamento internazionale in cui attualmente è rinchiuso, per non dire dall'accerchiamento militare cui è sottoposto dopo l'occupazione dell'Iraq, il controllo navale dello stretto di Hormuz, le basi militari Usa in Azerbaijan (rifugio di dissidenti iraniani), il controllo e sovente l'invasione dello spazio aereo con aerei senza piloti (droni), per non parlare degli attentati pre-elettorali nel sudovest dell'Iran, dove sono attivi i militanti del MEK (Mujahedin El Khalq), a cavallo della frontiera irachena, un tempo foraggiati da Saddam Hussein durante la lunga guerra contro Khomeyni, oggi a libro paga della CIA. Addirittura, secondo l'ex ispettore Onu sugli armamenti in Iraq nel periodo 1991-98, Scott Ritter, così come le operazioni preparatorie dell'attacco bellico contro l'Iraq risalivano sin all'estate 2002, con ordini ben precisi impartiti da Bush in persona, che nel frattempo fingeva di assecondare l'Onu e di ritenersi fiducioso nell'offensiva diplomatica (discorsi ufficiali sino a tutto il 2002), anche oggi nei confronti dell'Iran, incluso nell'asse del male sin dagli esordi dell'amministrazione nel 2001, gli Usa hanno deliberato di scatenare una guerra i cui atti preparatori ostili sono già in corso, a prescindere della campagna elettorale che dimostra come l'Iran sia già una democrazia sia pure imperfetta per ragioni religiose (esattamente come il fondamentalismo cristiano neocon si è imposto negli Usa e domina il credo privato e pubblico del Capo dello stato nonché Comandante supremo. E non è escludibile a priori una intesa indiretta tra integralisti). Del resto, come è ormai evidente, quando Bush parla di "liberazione", di "democrazia", soprattutto per gli altri, ha in mente solo una ennesima tappa del predominio unipolare del mondo da parte degli Stati Uniti.

L'ingresso nel club nucleare, tra rischi di guerra con Israele e difficoltà USA in Iraq

Già la fazione sciita, minoritaria nel panorama islamico mondiale, si sta ritrovando e ricompattando, dopo la vittoria irachena alle elezioni (ove sono la maggioranza della popolazione, mentre in Iran sono quasi monopolio religioso) e dopo l'apertura di credito e tolleranza dei Saud in Arabia per disinnescare una opposizione latente. Leggendo attentamente l'accerchiamento in atto, la leadership di preti ha accelerato il programma di difesa nucleare, approfittando dell'ambiguità della normativa internazionale che, rendendo lecita l'acquisizione di materiali nucleari a scopo civile, dimostra lacune nella distinzione esatta e precisa degli approvvigionamenti nei mercati esteri (spesso clandestini) di materiali non sempre esclusivi per uno dei due approcci (civile vs. militare). Così l'Iran, al pari di Israele, si sta dotando di armamenti nucleari fatti passare per civili, nella convinzione che ad oggi, nonostante tutto, la migliore difesa di fronte alla superpotenza americana, sia quella modellata dalla Corea del nord, ossia entrare a cose fatte nel club nucleare, anche non invitato ospite, e sedersi rumorosamente senza che possa esserne cacciato fuori, esattamente come hanno fatto a cose avvenute Israele, Pakistan e India.

Tuttavia proprio l'insidia nucleare-missilistica che l'Iran rappresenta per Israele espone a seria vulnerabilità tale assioma politico: anche l'Iraq ci aveva provato quando Saddam era persino alleato dell'Occidente, e i caccia israeliani distrussero in un raid gli impianti. Certo, è più difficile replicare tale mossa contro gli iraniani, la guerra sarebbe inevitabile, e con gli Usa impantanati in Iraq la tempistica è dirimente. Eppure proprio sui tempi maestri sono gli israeliani che, pur di costringere gli USA a sposare la loro causa di breve termine, non avrebbero esitazioni, né difficoltà logistiche o tecnologiche-militari, ad attaccare l'Iran qualora i tre stati europei mediatori (Regno Unito Francia e Germania), lo stato venditore di materiali (Russia) e una unilaterale e scettica amministrazione americana non fanno convergere i loro interessi offrendo una via d'uscita all'Iran per restarsene sicura nella propria sovranità teocratica in cambio di un nucleare civile non ostile all'alleato regionale (Israele), usando come moneta di scambio lo scongelamento dei beni finanziari depositati in America e sequestrati sin dal 1979, la fine dell'embargo sulle imprese non Usa che operano in Iran (aprendo quindi il mercato alle proprie imprese) e consentendo una pipeline Iran-Pakistan-India per la fornitura di gas che ridarebbe fiato alle casse iraniane, per ora comunque in buona salute per via dell'alto prezzo del petrolio.

Un futuro incerto

Ma gli Usa sapranno dimenticare l'onta degli ostaggi del 1979? sapranno non farsi condizionare dalla volontà di pianeta unico ai suoi ordini? sapranno ridimensionare l'ossessione cinese del 2050? A questi interrogativi è lecito aspettarsi risposta negativa, e di ciò il Presidente è ben consapevole tanto da figurarsi come principale obiettivo la unificazione di un paese estremamente giovane a cui concedere qualcosa in fatto di status materiale (lavoro, case), ma non di status civico (libertà, diritti) allontanando all'infinito la rotta di collisione con l'élite religiosa fondamentalista mai affrontata con decisione dai riformisti, che per questo si sono alienati le simpatie di buona parte della società, passata dall'altro lato o ripiegata in un privato duro da sopportare se moralmente monitorato dai pasdaran. Ma questo dovrà accadere sotto una regia sapiente che non frantumi l'intero regime teocratico spianando la strada ad una dittatura ancora più pesante o persino ad una gestione estera mandataria manu militari o attraverso la frantumazione dell'unità persiana in tante piccole regioni particolari (il Kurdistan iraniano ai curdi, la parte settentrionale agli azeri, terra e appalto di potere alle tribù locali secondo il modello iracheno, ecc.).

Proprio questo scenario peggiore dovrà evitare Ahmedinejad.

Salvo Vaccaro




































una storiasommarioarchiviocontatticomunicaticollegamenti