Umanità Nova, numero 25 del 10 luglio 2005, Anno 85
Come sempre all'inizio dell'estate, si intensificano i check-up ai conti pubblici italiani, in vista del Dpef e della finanziaria 2006, da varare a settembre. Se nel 2004 era stata Standard & Poor's a preannunciare il declassamento del debito sovrano italiano al rating AA-, questa volta è Fitch ad accendere i riflettori, esprimendo un "outlook" negativo sullo stato della nostra finanza pubblica, il primo passo verso un eventuale abbassamento di rating. Solo Moody's ci gratifica ancora di un lusinghiero Aa2, ma le preoccupazioni dell'Agenzia sono state espresse direttamente al Presidente del Consiglio, l'Unto del Signore Silvio Berlusconi, preannunciando così provvedimenti più severi in futuro.
La credibilità del governo è ai minimi, non solo nei confronti dell'elettorato interno (come dimostrano i sondaggi), ma anche nel giudizio delle istituzioni sovranazionali che hanno il compito di sovrintendere al rispetto dei parametri che stanno alla base dell'appartenenza italiana alla comunità europea. Il Consiglio dell'Ecofin dovrà decidere, nella seduta del 12 luglio, il periodo da accordare all'Italia per recuperare il suo splafonamento per deficit eccessivo e dovrà esprimersi altresì sull'entità del correttivo da apportare. Nei giorni scorsi il governo ha patteggiato con la Commissione, attraverso incontri tra Siniscalco e Almunia, una manovra in due anni per correggere lo sfondamento dei parametri: sia nel 2006 che nel 2007 il governo italiano dovrà migliorare di 10 miliardi di euro il rapporto tra entrate ed uscite, non dovrà ricorrere ad una tantum, dovrà presentare un piano credibile entro 4/6 mesi dall'avvio della procedura d'infrazione.
L'atteggiamento moderato che la Commissione Europea ha accordato all'Italia si può spiegare in vari modi: ha pesato indubbiamente il precedente del novembre 2003, quando Tremonti e Berlusconi mediarono per risparmiare a Francia e Germania l'umiliante applicazione delle sanzioni dovute per lo sfondamento dei parametri; ha contato il fatto che l'Italia è in recessione ed imporre già da quest'anno una severa manovra correttiva avrebbe comportato un pesante peggioramento della già depressa congiuntura economica italiana; ha influito infine la pietosa valutazione che in un anno elettorale nessun governo può permettersi di fare una politica economica troppo penalizzante sul piano del consenso.
Insomma, il governo ha ottenuto una grande quantità di sconti, sebbene lo stato dei conti italiani sia davvero grave. Il fabbisogno del settore statale è salito nel primo semestre a quasi 44 miliardi di euro, contro i 40 del primo semestre 2004. L'affidabilità delle cifre fornite dal governo continua ad essere estremamente vaga, mentre i resoconti statistici degli enti comunitari stigmatizzano implacabilmente la finanza creativa che per 4 anni ha sostenuto l'agire del governo. La sostituzione di Tremonti con Siniscalco non ha cambiato, se non in peggio, il pressapochismo che governa la finanza pubblica, con una padronanza della materia davvero poco granitica. Siniscalco gioca da politico contro i tecnici e viceversa, non fornisce mai cifre precise, né dà l'impressione di conoscere davvero lo stato dell'arte. Significativamente, non ha ancora passato le consegne a chi lo dovrebbe sostituire alla Direzione del Tesoro, il suo precedente incarico, quasi per tenersi calda la poltrona nel caso che le cose al governo si mettano male.
Le promesse demagogiche di Berlusconi di ridurre le tasse e la sentenza della Corte Europea che ci invita ad eliminare l'Irap stanno intanto producendo effetti devastanti sull'equilibrio della finanza pubblica. I risparmi fiscali sull'Irpef (ora Ire) sono risibili nelle tasche dei lavoratori dipendenti a reddito medio-basso, ma cominciano a produrre effetti interessanti sulle fasce più alte dei contribuenti e produrranno comunque buchi nella finanza pubblica di qualche consistenza tra il 2006 ed il 2007. La pressione delle imprese, sull'onda della sentenza europea, in merito all'abolizione dell'Irap (che con un'aliquota di poco superiore al 4% rappresenta il nostro principale strumento di federalismo fiscale) ha portato il governo a progettare l'esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro, seppure in modo graduale (1/3 ogni anno per tre anni), con l'intento dichiarato di favorire le aziende che esportano, ma ottenendo sul piano pratico un forte risparmio per i settori protezionisti e protetti, come le banche. Nel complesso la manovra sull'Irap farà mancare ai conti pubblici 4 miliardi di euro l'anno. La manovra caldeggiata dalla Commissione Europea pesa per altri 10/11 miliardi. In totale la finanziaria 2006 dovrà quindi riaggiustare i conti per almeno 15 miliardi, senza contare lo spazio da riservare alla riduzione dell'Irpef e i rimborsi compensativi che bisognerà dare alle imprese per la rinuncia al Tfr (6/700 milioni di euro l'anno). Come se non bastasse ci sono altri soldi che ballano: i 4 miliardi di euro previsti in finanziaria come entrate per la revisione degli studi di settore sono evaporati tranquillamente e i 4 miliardi incassati dall'ennesimo collocamento Enel vanno inseriti nel fondo ammortamento debito pubblico, mentre al Tesoro entreranno sempre meno dividendi. Se il saldo tendenziale del deficit rimane così com'è, avremo a fine 2006 un rapporto debito/pil vicino al 109%, un bel ritorno all'indietro con grossi problemi di tenuta sui mercati finanziari. Per cambiare registro bisogna quindi trovare molti soldi e subito.
Ovviamente nel governo non c'è alcun accordo sul dove trovare questi soldi e quali settori colpire. Il blocco del turn-over nel settore pubblico si è tradotto nell'assunzione di 100.000 nuovi addetti negli ultimi quattro anni. Il neo-ministro della Sanità Francesco Storace insiste per avere a disposizione capitoli di spesa intangibili, non tanto perché ha a cuore la salute pubblica, quanto piuttosto per il massiccio potenziale clientelare di una macchina come quella sanitaria, su un terreno così delicato e sdrucciolevole. Le truppe cammellate dell'Udc sono ben attestate su posizione neo-welfariste, soprattutto quando si tratta di toccare la spesa familiare o i bacini elettorali sensibili, come quello siciliano. Il rigore fatica a camminare persino sotto le azzurre bandiere forzitaliote, partito liberista quanti altri mai, ma anche strumento di gestione delle commesse pubbliche da parte del formigoniani di Comunione e Liberazione, con le loro cooperative sociali distribuite sul territorio e grandi intercettori di risorse statali.
L'economia reale non consente del resto alcun volo pindarico.
L'Italia è il paese più lento nell'ammodernamento della
struttura dei servizi, nella innovazione del proprio potenziale
produttivo, nel miglioramento delle ragioni di scambio. Da quattro anni
il deficit commerciale alimenta costantemente la crescita del debito
estero, che salirà quest'anno da 98 a 115 miliardi di euro,
attestandosi al livello dell'8,4% del Pil. E non vale qui il
ragionamento corrente secondo cui la colpa è della Cina o
dell'euro: le nostre ragioni di scambio peggiorano soprattutto nei
confronti degli altri partner comunitari, cioè Francia e
Germania, che continuano a crescere come quota sia sul mercato interno
europeo che sul commercio internazionale. Viene meno la forza ormai
decaduta del modello dei distretti, crolla la domanda interna, sotto i
colpi della crisi, dell'insicurezza, della precarietà dei
redditi, del taglio del salario, dell'attacco al sistema di protezione
sociale.
Un governo in preda alle risse interne è lo strumento meno adatto ad impostare severe manovre di risanamento. È probabile quindi che si vada ad una veloce accelerazione del quadro politico, con un cambiamento di marcia. L'inarrestabile deterioramento della finanza pubblica può portare, come è già accaduto in passato, a passi indietro della politica rispetto ai tecnici. Berlusconi può passare la mano ad un governo di transizione che porti il paese alle urne con una finanziaria 2006 blindata, in attesa che le coalizioni decidano una leadership per il prossimo quinquennio. La finanziaria d'autunno può costituire la prova generale di una ripresa della concertazione sotto il segno dell'emergenza e della ragion di stato, un passaggio delicato verso un nuovo patto sociale, verso un quadro di moderazione e di dialogo, un nuovo sistema di contrattazione ed un "capitalismo di fondi pensione".
Renato Strumia